Joe Trippi ha lavorato per diversi candidati dem sin dai tempi della campagna di Walter Mondale nel 1984 fino ad arrivare alla vittoria inaspettata del senatore Doug Jones nel fortino repubblicano dell’Alabama. Oggi lavora per il Lincoln Project: giudica la comunicazione della Casa Bianca e indica in quale bacino elettorale si possono portar via voti ai repubblicani
È evidente, ad esempio, il suo distacco dal 52% dell’elettorato democratico vicino alle ragioni dei civili di Gaza, mentre la Casa Bianca ha scelto all’inizio un sostegno molto concreto al governo israeliano. Adesso c’è anche la questione delle proteste a mettere in difficoltà il presidente, che vede davanti a sé mesi difficili nei quali dovrà lottare duramente per la sua rielezione a novembre.
Per meglio capire le decisioni che verranno nei mesi davanti a sé, Domani ha raggiunto Joe Trippi, classe 1956, uno dei più navigati strateghi elettorali delle campagne dei dem statunitensi sin da quando nel 1984 era stato scelto come campaign manager da Walter Mondale, ex vicepresidente di Jimmy Carter, poi sconfitto dal repubblicano Ronald Reagan.
Ha avuto più fortuna in anni recenti, quando è stato dietro il ritorno di Jerry Brown quale governatore della California, ma soprattutto per la vittoria di misura di Doug Jones alle elezioni suppletive in Alabama per il Senato a fine 2017, quando era riuscito a conquistare la vittoria in una roccaforte repubblicana.
L’apice della sua carriera è la direzione della campagna dell’allora governatore del Vermont Howard Dean per le primarie presidenziali del 2004.
Fu la prima competizione a vedere un ampio uso dell’engagement online, per costruire quello che lui descrisse «come il più grande movimento di attivisti dal basso» grazie al quale era riuscito a comunicare direttamente con gli elettori e a lanciare per la prima volta la raccolta fondi online di piccole somme con cui sfidare lo strapotere dei donatori milionari.
Trippi all’estero, tra gli altri, ha lavorato anche per la coalizione Romano Prodi in occasione delle elezioni politiche del 2006, vinte di stretta misura contro il centrodestra berlusconiano.
Dal giugno 2021 è diventato un consulente senior del The Lincoln Project, un’agenzia di comunicazione politica gestita da ex strateghi repubblicani.
Come mai lei che è stato per così tanto tempo un consulente partitico dei dem ha fatto questa scelta?
Trovo che la comunicazione tradizionale dei democratici negli ultimi anni prima dell’avvento di Trump fosse diventata incapace di parlare non soltanto all’elettorato repubblicano, ma anche a quello indipendente. Al Lincoln Project invece sapevano capire il loro linguaggio e usavano i toni giusti e convincenti, con la giusta durezza per portarli dall’altra parte. Dato il mio disappunto per l’incapacità di certi comunicatori del mio partito, ho deciso di unirmi a loro nel giugno 2021, dopo aver constatato la loro efficacia alle presidenziali del 2020.
Lei dice che ormai non si tratta più di una lotta tra destra e sinistra, ma tra democrazia e autoritarismo. Dopo Trump il partito repubblicano tornerà a essere più rispettoso delle istituzioni e rispettoso del voto degli elettori?
No, purtroppo ormai rimane un solo partito sostenitore della democrazia e non ci sono altre scelte rimaste. Anche dopo che Trump avrà abbandonato la scena politica, certi elementi ormai hanno trasformato in modo radicale i repubblicani: il Gop per come lo conoscevamo non tornerà più e dobbiamo abituarci a questo, magari verrà formato un nuovo partito.
Lei è stato uno dei pionieri della presenza online dei politici, sin dai tempi della campagna di Dean. Pensa che la presenza online del presidente sia ben bilanciata, compresa la sua presenza su un social discusso come TikTok?
Certamente, si può essere favorevoli alla vendita forzata di TikTok a un investitore nazionale ed essere presenti lì sopra. Per un semplice fatto: i voti vanno presi dove sono e lì ci sono moltissimi elettori giovani.
A proposito di questo segmento di elettori, molti giovani sono favorevoli alle manifestazioni che in queste settimane stanno scuotendo la vita dei campus. Tra gli elettori democratici c’è chi è favorevole a reprimere queste dimostrazioni anche con l’uso della polizia ma c’è anche chi vorrebbe cercare un dialogo. Come si è mosso il presidente secondo lei?
Non è entrato a gamba tesa nelle vicende locali ma ha detto una piccola frase sacrosanta: le manifestazioni pacifiche sono protette dalla Costituzione, quelle violente non lo sono. Una posizione di grande equilibrio che cerca di ribadire quello che va detto senza guardare troppo ai sondaggi, ma facendo ciò che, secondo lui, è giusto. Anche per gli studenti però è un momento decisivo: devono capire che c’è un momento in cui devono scegliere tra democrazia e autoritarismo. E candidati-spoiler come Kennedy Junior non sono utili per niente in questo momento, perché fanno sembrare le elezioni meno decisive di quello che sono.
Biden non ha guardato i sondaggi nemmeno quando si è trattato di sostenere Israele nei primi mesi del conflitto e anche di recente, pur avendo assunto una posizione molto più critica nei confronti del governo di Netanyahu. Lei pensa che questa scelta sia stata in linea con gli elettori?
Il presidente ha cercato di fare ciò che, secondo lui, è giusto, non è stato sempre con gli occhi agli indici di gradimento di ogni sua mossa, anzi, ha cercato di fare ciò che pensava fosse meglio sia per gli Stati Uniti che per quello che è uno storico alleato. Allo stesso modo, di recente, ha congelato il trasferimento di armi che potrebbero essere usate perché pensa che in questo momento vada fatto, anche se può costargli dei voti in un senso o nell’altro.
Tra chi ha votato Biden nel 2020 c’è anche un pezzo di elettorato moderato che ha lasciato i repubblicani perché disgustato da Trump, una delle chiavi della vittoria democratica quell’anno è stato questo. Pensa che questi elettori possono essere alienati da certe politiche ritenute troppo progressiste?
Sicuramente c’è il rischio che certe persone si distacchino, magari non per tornare a votare un partito repubblicano ormai sempre più trumpizzato, ma semplicemente perché potrebbero astenersi. C’è però un pezzo di elettorato che forse è stato conquistato per sempre: mi riferisco a quelle donne che vivono nelle aree suburbane che magari non avevano mai votato per i democratici in vita loro, ma che sono disgustate dal modo in cui Trump tratta le donne. Loro non torneranno mai in un partito che ritengono le disprezzi.
C’è un altro segmento che state cercando di convincere come Lincoln Project?
Posso fare un esempio: ci sono i cosiddetti “Dobbs Dads”. Quei genitori di figlie femmine che magari hanno anche una visione sociale conservatrice e sono personalmente contrari all’aborto, ma che sono preoccupati per il destino delle loro ragazze che crescono e che potrebbero doversi trovare in situazioni difficili, nelle quali non saranno loro a decidere, ma il governo al posto loro, in uno stato che magari ha vietato totalmente l’interruzione di gravidanza.
Questi elettori a nostro giudizio sono estremamente contendibili al partito repubblicano e come Lincoln Project ci occuperemo di conquistarli alla causa della democrazia sfidata dall’autoritarismo trumpista.
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