Il World Food Programme e il governo congolese non hanno garantito la protezione dell’ambasciatore italiano. Ma l’ex ministro Terzi accusa la Farnesina: «Allarmante la mancanza di risorse per la rete diplomatica»
- Prima del viaggio sono state eseguite varie analisi di rischio sulla RN2, la strada in cui ha trovato la morte Attanasio, tutte con lo stesso risultato: livello di pericolosità “green”, il più basso possibile, tipo gita fuori porta.
- Sul banco degli imputati restano in prima fila gli organismi dell'Onu come il World Food Program (Wfp), ma qualche interrogativo comincia a diffondersi sul ruolo e le responsabilità della stessa Farnesina.
- Filippo Ivardi, direttore del mensile dei missionari comboniani Nigrizia racconta: «C’era allarme nella capitale ruandese Kigali sulla volontà del nostro diplomatico di andare a fondo sulle complicità ruandesi nei massacri e sulla volontà di appoggiare nuovi potentati in Congo».
A 16 giorni dall’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, di Vittorio Iacovacci e di Mustapha Milango in Congo, continuano a emergere dettagli che suscitano dubbi sui ruoli dei diversi attori attorno alla scena del delitto. Sul banco degli imputati restano in prima fila organismi dell’Onu come il World Food Programme (Wfp), il Dipartimento di sicurezza e la Monusco – la forza di interposizione dei Caschi blu – ma qualche interrogativo comincia a diffondersi sul ruolo e le responsabilità della stessa Farnesina. Un mosaico complesso al quale gli inquirenti provano ogni giorno con fatica ad aggiungere uno dei tasselli mancanti.
A cominciare dall’organizzazione del viaggio. Secondo la versione del vicedirettore della comunicazione del Wfp Greg Barrow, la missione dell’ambasciatore era stata decisa nel dicembre scorso e prevedeva una visita al centro scolastico di Rutshuru dove il Wfp gestisce un programma di educazione e assistenza alimentare. Prima del viaggio sono state eseguite varie analisi di rischio sulla RN2, la strada in cui ha trovato la morte Attanasio, tutte con lo stesso risultato: livello di pericolosità “green”, il più basso possibile, tipo gita fuori porta. Eppure la strada è notoriamente teatro, da decenni, di continui assalti, rapimenti, omicidi e scontri a fuoco. Nel triangolo tra Goma, il parco del Virunga e la regione di Rutshuru dove stava recandosi Attanasio, vigono terrore e anarchia assoluta. In tutto il Kivu, l’area interessata, a est della Repubblica democratica del Congo, al confine con Uganda, Ruanda e Burundi, sono in azione tra i 130 e i 150 gruppi armati.
Strada green o strada red?
Chi ha deciso di giudicarla “green” e “cleared” (via libera) e di non richiedere che la delegazione fosse scortata né che avesse bisogno di viaggiare almeno su veicoli blindati? Il Wfp, per bocca del vicedirettore per il Congo Rocco Leone – rimasto nel paese africano a disposizione degli inquirenti nazionali e internazionali dopo l’attentato nel quale è rimasto illeso – ha assicurato che le tre inchieste avviate dalle autorità congolesi, italiane (il 23 febbraio è arrivata in Congo una delegazione de Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri) e dal Dipartimento per la sicurezza delle Nazioni Unite, faranno piena luce sul punto.
La nota inviata dall’ambasciata italiana al ministero degli Esteri congolese il 15 febbraio – che smentisce la prima dichiarazione ufficiale del governo di Kinshasa secondo cui non avrebbe mai ricevuto notizie della missione – chiede alle autorità competenti il trattamento diplomatico (compreso il mancato controllo dei bagagli, richiesto, secondo alcuni, anche per evitare che si notasse l’arma trasportata in una valigetta dal carabiniere Iacovacci, non prevista in missioni umanitarie) per l’imbarco sul volo Unhas (United Nations Humanitarian Air Service) del 19 febbraio. Alla voce “scopo del viaggio”, c’è un generico “visita a italiani a Goma”, senza alcun cenno allo scopo della missione in uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Resta da capire se e quando la Farnesina sia venuta a conoscenza del viaggio e degli scopi della missione.
Le responsabilità italiane
Sul capitolo ministero degli Esteri c’è spazio per più di una perplessità. È senza dubbio il Wfp il primo soggetto su cui puntare il dito – come ha fatto a caldo Luigi Di Maio in parlamento – perché preposto alla sicurezza e responsabile di aver dichiarato “green” una strada “red”. Ma non basta a fugare ogni dubbio l’affermazione dello stesso ministro degli Esteri: «A Kinshasa abbiamo due blindati, ma è impensabile arrivare in auto fino a Goma». Certo, tra le due città congolesi ci sono 50 ore di strada, ma era impensabile provvedere a veicoli a Goma? E i responsabili della sicurezza dell’ambasciata a Kinshasa, una volta saputo della missione, come si sono comportati? Gli è bastata la telefonata tra Attanasio e il Wfp – riferita dalla moglie Zakia Seddiki – con cui l’organismo dell’Onu si impegnava a garantire la sicurezza dell’ambasciatore?
L’ex ministro degli Esteri ed ex ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata conferma che sul punto ci sarà da indagare: «Non c’è dubbio che i primi a dover rispondere della grave carenza di valutazione e di misure per garantire l’incolumità, siano il Wfp, il Dipartimento di sicurezza dell’Onu e la Monusco. Ma sotto un profilo più generale, la mancanza di risorse di cui soffre la Farnesina, in rapporto agli altri principali paesi che hanno una rete diplomatica, si è aggravata negli anni fino a divenire allarmante. È abbastanza facile quando si frequentano le ambasciate dei paesi nel mondo rendersi conto di tale evidenza. Inoltre vi è una carenza nella percezione dell’opinione pubblica e di alcune forze politiche delle questioni della sicurezza e della difesa del paese nel suo insieme, che non appaiono essere così sentite come, ad esempio, negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra o in altri paesi europei. La carenza di mezzi, in costante diminuzione da anni, così come la riduzione del personale di protezione, sono temi di notevole gravità».
Ad aumentare i dubbi, poi, contribuisce una nota del governo congolese che il 27 febbraio, a cinque giorni dall’eccidio, ha fatto sapere che «lo stesso giorno dell’invio della informativa (cioè il 15 febbraio, ndr), in tardo pomeriggio, l’ambasciatore ha fatto visita al direttore del protocollo di stato per annunciare che il viaggio non si sarebbe più svolto e che avrebbe fatto seguito una nota per ufficializzare tale scelta». Una versione singolare, visto che il viaggio si è poi effettivamente svolto, come purtroppo sappiamo. Sembra un tentativo di scaricare sull’ambasciatore la responsabilità della totale assenza di una procedura di sicurezza a cui il governo del Congo era comunque obbligato dalla convenzione di Vienna per tutela degli ambasciatori sul proprio territorio.
Obiettivi non dichiarati?
C’erano obiettivi non dichiarati nella missione di Attanasio? Questo è il secondo tema su cui vengono sollevati interrogativi che talvolta sembrano interessati. Ufficialmente l’ambasciatore si stava recando presso la cittadina di Rutshuru dove il Wfp conduce un programma di promozione alimentare nelle scuole primarie. Ma vengono avanzate altre ipotesi. «Oggi fonti attendibili ci rendono certi di una cosa – dichiara Filippo Ivardi, direttore del mensile dei missionari comboniani Nigrizia – Luca Attanasio era informato sui massacri che si compiono nell’est del Congo e aveva un dossier sulle fosse comuni in cui sono stati seppelliti negli anni centinaia di civili. Sulla base di queste testimonianze verificate abbiamo ricostruito una ipotesi che porta direttamente al presidente del Ruanda, Paul Kagame. C’era allarme nella capitale ruandese Kigali sulla volontà del nostro diplomatico di andare a fondo sulle complicità ruandesi nei massacri e sulla volontà di appoggiare nuovi potentati in Congo. C’è un riposizionamento dei centri di potere in atto nell’est del paese, e Attanasio ci è andato di mezzo perché riceveva molte informazioni e non rimaneva indifferente».
Il Congo balcanizzato
A suggerire l’ipotesi di interventi di forze esterne al Congo nell’uccisione di Attanasio vi è senza dubbio il contesto intricatissimo in cui vive da decenni il grande paese africano. Da metà degli anni ’90 a oggi il Congo è centro di conflitti senza soluzione di continuità che hanno prodotto un numero ingente di morti – stimati tra i sei e i dieci milioni – e grandi esodi di profughi all’interno o verso l’estero. Alla situazione di instabilità permanente in tutto il paese, con pesanti ripercussioni nelle zone orientali in guerra totalmente lasciate a sé stesse, ha contribuito Joseph Kabila, alla guida del paese dal 2001 (quando è stato ucciso il suo predecessore e padre Laurent-Désiré) al 2018.
Dal 2017 in poi – a causa del suo ripetuto rifiuto a farsi da parte e indire elezioni dopo che il suo terzo mandato era terminato a dicembre del 2016 – si è reso protagonista di una serie di misure che hanno esasperato la popolazione e aperto nuovi fronti. Quando finalmente le elezioni si sono celebrate il 30 dicembre 2018 a vincerle, grazie a clamorosi brogli, è stato Félix Tshisekedi, un esponente dell’opposizione piegatosi all’alleanza con l’intramontabile Kabila con il quale ha formato una coalizione. In seguito il sodalizio tra i due è venuto a mancare e il presidente, con metodi molto discussi, si è assicurato l’appoggio di parlamentari di molti partiti e ha scalzato dal governo il partito di Kabila. L’ex capo dello stato non ha reagito bene. «Non escludo che dietro l’uccisione di Attanasio – sostiene Ivardi – possa esserci la storica alleanza tra Kabila e Kagame e la volontà di minare con il caos il potere di Tshisekedi. Non dimentichiamo poi che Attanasio era amico personale del dottor Denis Mukwege, medico ginecologo congolese, premio Nobel per la Pace 2018, il quale riceve minacce e rischia la vita costantemente. Ha chiesto un tribunale speciale e non ha nascosto al nostro diplomatico le atrocità commesse».
«La mia idea è che Attanasio, con la sua presenza in zona, stava suscitando attenzioni – dice Anselme Bakudila, agronomo congolese ora in Italia, attivista e co-fondatore dell’associazione Undugu che opera anche nel Kivu – e che quindi andava fermato. Ruanda, Burundi e Uganda non vogliono assolutamente riflettori accesi sulle regioni orientali e avere un elemento come Luca in quel territorio (era alla sua quarta visita, ndr) creava problemi. Resta incredibile, in ogni caso, che la strada sia stata dichiarata “verde”, un mio collaboratore sul posto mi ripete che non ci si muove mai senza scorta. Ma dov’erano le forze preposte a garantire la sicurezza? La Monusco, ad esempio, perché non si è resa disponibile a scortare? I dubbi sono tanti, anche di collusioni: le riporto che anni fa un camion della Monusco si è ribaltato e sono stati rinvenuti sacchi pieni di cobalto. Io presumo che ci sia stato un passaggio di informazioni di gente che sapeva il suo itinerario anche se lui mi sembra abbia fatto di tutto per lasciarlo vago e non mi stupirei di sapere che anche operatori collegati all’Onu fossero coinvolti».
Un mix letale, quindi, a cui hanno concorso mancate garanzie di sicurezza, inazione, carenza di mezzi, interessi economici e geopolitici, anarchia totale, assenza di governance. Il tutto sullo sfondo di un paese tra i più instabili e pericolosi al mondo a cui l’ambasciatore Attanasio voleva offrire un contributo di pace.
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