Certe campagne elettorali, proprio come certi amori politici, fanno dei giri strani e poi ritornano. Sono stati proprio due strateghi repubblicani a costruire la strategia che ha consentito a Viktor Orbán di riprendersi il potere in Ungheria nel 2010; e adesso è il premier ungherese a finire dentro la campagna elettorale del repubblicano più esposto del momento.

«C’è un tizio davvero tosto», ha detto Donald Trump nel comizio clou con cui ha ottenuto ufficialmente la nomina di candidato dei repubblicani. Il tough guy, il «campione di democrazia illiberale» esibito dal tycoon nei suoi comizi, è appunto Orbán, che dopo aver fatto da apripista a Russia e Cina in Europa, torna a fare l’apripista anche di The Donald.

È il suo indefesso e ostentato sostenitore sin da quando, nel luglio del 2016, ancora pochi erano pronti a scommettere che Trump avrebbe ottenuto la Casa Bianca. All’epoca l’azzardo era calcolato per precise ragioni interne, oggi il calcolo si basa sull’assunto che vi sia ben poco da perdere: all’epoca bisognava sventare le trappole piazzate dai democratici a Budapest, adesso il loro sdegno è dato per assodato.

In termini di potere reale, è ovvio che anche stavolta il rapporto è profondamente asimmetrico: se Trump tornasse a guidare gli Stati Uniti d’America, sarebbe lui la parte forte della relazione. Ma negli ultimi anni Budapest si è ridisegnata come il luogo di accoglienza e di scambio con gli intellettuali della destra americana, coltivando anche i rapporti con la potente Heritage Foundation, la stessa che pianifica per il 2025 disegni illiberali.

Il centro del potere resta a Washington, ma Orbán oggi può vantare almeno quello di «influencer illiberale», come lo chiama il suo biografo (critico) Stefano Bottoni. Inoltre «Orbán è per Trump la pedina più stabile che lui possa avere nel mondo occidentale». Ça va sans dire: il grado di stabilità che il premier ungherese assicura all’aspirante presidente Usa è inversamente proporzionale a quello da lui garantito all’Unione europea. Parla da sé il fatto che l’ultimo viaggio orbaniano a Mar-a-Lago, nella tenuta di Trump in Florida, si sia svolto subito dopo le sue trasferte al Cremlino e a Pechino.

Strategie elettorali

I repubblicani, che oggi citano Orbán nella campagna elettorale, hanno letteralmente fatto la sua. Dopo aver perso il potere nel 2002, il leader di Fidesz è stato determinato a riprenderselo nel 2010, e a tal fine gli è venuto in soccorso lo stratega repubblicano Arthur Jay Finkelstein, già consulente per figure come Ronald Reagan e Benjamin Netanyahu. Dal 2008, assieme al suo delfino George Birnbaum, Finkelstein ha costruito la campagna orbaniana. E ha cominciato da un fondamento che viene utilizzato tuttora: la costruzione del nemico.

All’epoca è stato individuato come bersaglio George Soros, a dispetto del fatto che negli anni Novanta proprio lui avesse puntato sul giovane Orbán. Ma anche quando si è emancipato dai due strateghi americani il premier ungherese ha continuato a utilizzare la stessa tattica: dopo Soros padre, contro Soros figlio; contro Jean-Claude Juncker e a seguire contro Ursula von der Leyen. Contro i migranti – bersaglio che si rivede anche nella campagna trumpiana – e contro la comunità lgbt.

La «formula Finkelstein» è una formula al negativo: campagne basate non sui pro ma sui contro, e che contano sulla paura. L’ultimo spauracchio di Orbán alle europee di giugno è stato il timore di una guerra nucleare. Quanto a Trump, il polarizzatore in chief vede nemici quasi ovunque: questo martedì ce l’aveva con Abc, il giorno prima con le risate di Kamala Harris, e così via.

Le influenze reciproche trovano una sintesi quando il repubblicano cita Orbán – uno che a suo dire è «potente e tosto» – per darsi ragione: «Il premier ha detto che bisogna riportare Trump alla Casa Bianca perché lui tiene tutti a bada. Ed è vero».

Connessioni illiberali

Trump fa riferimento a Orbán in quanto «campione di democrazia illiberale» ed è proverbiale il fatto che con ciò non intenda offenderlo, ma semmai esaltarlo.

Dopo aver ripreso il potere nel 2010, il leader di Fidesz ha plasmato il paese così da scongiurare ogni possibilità di perderlo: non ha soltanto teorizzato la «democrazia illiberale», ma ha anche cambiato la Costituzione, usato gli stati d’emergenza, irreggimentato i media, concentrato in poche mani (a lui prossime) i vantaggi economici, e così via.

Dall’altra parte dell’oceano, la Heritage Foundation – il potente think tank che sta supportando Trump – ha messo a punto il “Progetto 2025”, che dietro l’etichetta di «presidential transition project» intende realizzare su larga scala quel che Orbán ha fatto in Ungheria: plasmare le infrastrutture di potere così da trattenerlo nelle mani trumpiane. «Non ci basta vincere le elezioni, ci serve la gente giusta nei posti giusti», dice la Heritage scagliandosi contro «i politici liberali».

Nazione Futura, think tank di area meloniana, sta organizzando un evento con Heritage Foundation a Roma in autunno, come anticipa a Domani Francesco Giubilei. La rete di connessioni congiunge Roma, Washington e Budapest. La capitale ungherese ospita la Conservative Political Action Conference (Cpac) e sempre a Budapest si sono trasferiti intellettuali della destra americana come Rod Dreher o Gladden Pappin, che oggi dirige l’orbaniano Hungarian Institute of International Affairs: il premier ungherese offre incarichi ben pagati, loro ricambiano con visibilità e connessioni. Per non parlare delle gite entusiaste di Tucker Carlson e di altri turisti americani dell’illiberalismo ungherese.

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