Un invito a sorpresa, anche se è difficile che il presidente cinese accetti. Probabilmente il prossimo inquilino della Casa Bianca ha voluto mandare un segnale: la sua America isolazionista è pronta a trattare (ritenendo di poterlo fare da una posizione di forza) con la Cina per arrivare a una riduzione del deficit commerciale mediante un impegno di Pechino ad aumentare le importazioni dagli Usa
Donald Trump ha invitato alla sua cerimonia di insediamento, il 20 gennaio prossimo, nientepopodimeno che Xi Jinping.
A rivelarlo è stata la Cbs, che ha aggiunto il clamoroso dettaglio alla notizia della telefonata tra i due di qualche giorno fa, durante la quale il presidente cinese si è congratulato col quarantasettesimo inquilino della Casa bianca che minaccia contro Pechino dazi fino al 60 per cento sulle importazioni negli Usa.
C’è già chi ipotizza un “reset” trumpiano delle relazioni con la Cina, ma probabilmente si tratta solo di fantasiose suggestioni, se consideriamo ciò che la prima amministrazione Trump è stata per Pechino (tra guerra commerciale, strategia di sicurezza nazionale e accuse razziste sull’origine della pandemia di Covid-19), e gli alti funzionari scelti per la seconda, tutti ultrà anti Cina quelli nei posti chiave.
E comunque Xi molto difficilmente accetterà la convocazione, perché i massimi leader cinesi non si presentano da spettatori a eventi simili, mentre per un incontro ufficiale al vertice con la controparte statunitense la diplomazia di Pechino mette in moto preparativi maniacali, che possono durare anche mesi.
Probabilmente Trump ha voluto mandare un segnale: la sua America isolazionista è pronta a trattare (ritenendo di poterlo fare da una posizione di forza) con la Cina per arrivare a una riduzione del deficit commerciale (279 miliardi di dollari nel 2023) mediante un impegno di Pechino, fin dalla prima fase del secondo mandato Trump, ad aumentare le importazioni dagli Usa.
Intanto, con Joe Biden ancora in sella, continua l’occhio per occhio. Washington ha annunciato che le tariffe di importazione per il polisilicio cinese, utilizzato per i pannelli solari, raddoppieranno dal 25 al 50 per cento e che altri prodotti di tungsteno utilizzati nella fabbricazione di semiconduttori saranno soggetti a una nuova tassa del 25 per cento. La settimana scorsa Pechino aveva bloccato l’export di gallio, germanio, antimonio e grafite diretti negli Usa.
Di alcune materie prime indispensabili nell’industria hi-tech la Cina controlla l’intera filiera e ha il monopolio della produzione: 98 per cento del gallio, 60 per cento del germanio, 77 per della grafite. E gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per circa il 50 per cento delle importazioni di questi minerali. Da quando, nell’ottobre scorso, Pechino ha iniziato ad applicare limiti alla loro vendita agli Stati Uniti (anche in quel caso in risposta a limitazioni Usa di export hi-tech verso la Cina), il prezzo del gallio e del germanio – indispensabili per le comunicazioni satellitari e alcuni armamenti – è aumentato rispettivamente dell’80 e del 50 per cento.
Colpendo questi minerali a doppio uso (civile-militare), Pechino ha reso pan per focaccia e ora Washington deve scegliere: trattare oppure subire un danno che lo US Geological Survey ha stimato in 3,4 miliardi di dollari di Pil in meno.
Recinto inutile
È ormai chiaro che lo schema di gioco della competizione hi-tech in corso tra i due paesi prevede che ogni restrizione Usa inneschi una reazione uguale e contraria da parte della Cina di Xi Jinping (che ha fatto della “autosufficienza tecnologica” il suo marchio di fabbrica) che danneggia gli stessi Stati Uniti. E ciò rappresenta uno dei punti deboli della strategia che Biden ha battezzato “cortile stretto con recinto alto”, che ha altresì contribuito ad accelerare l’innovazione autoctona della Cina.
Secondo la Cctv la Cina ha già superato l’obiettivo della creazione di 10.000 nuove piccole e medie imprese private nei settori tecnologici nel periodo del XIV Piano quinquennale (2021-2025). La tv di stato ha riferito che tra i 14.600 nuovi “piccoli giganti” si contano 5mila compagnie che si occupano di nuove tecnologie, come intelligenza artificiale e droni commerciali.
Circa il 90 per cento dei “piccoli giganti” sono aziende manifatturiere, di cui oltre l’80 per cento opera in “catene industriali strategiche emergenti”, come i semiconduttori e l’aerospaziale. Come rileva uno studio del Mercator Institute for China Studies, la politica industriale di Pechino ha scommesso sul potenziale di queste imprese di specializzarsi in mercati di nicchia, di sviluppare alternative nazionali ai componenti tradizionalmente importati dall’estero e di rafforzare la catena industriale cinese.
A tal fine il governo ha istituito un sistema di supporto globale per queste aziende, come delineato nella strategia “Made in China 2025”.
Oltre gli armamenti
Lo scontro senza esclusione di colpi sull’hi-tech sta rendendo sempre più difficili le relazioni tra Cina e Stati Uniti, alimentando un rancore e una diffidenza che non promettono nulla di buono in vista dell’arrivo di Trump.
L’ultimo contributo dell’amministrazione Biden a questo conflitto combattuto a colpi di divieti, sanzioni e pressioni, mai viste negli ultimi anni, sui giganti industriali dei paesi alleati (ad esempio Giappone, Olanda, Taiwan) è arrivato la settimana scorsa, con l’aggiunta nella lista nera del governo Usa di 140 nuove entità che non potranno fare affari con gli Stati Uniti senza un permesso preventivo.
È previsto il blocco delle esportazioni verso la Cina di 24 tipi di macchinari per la fabbricazione di microchip e tre categorie di software essenziali per lo sviluppo dei semiconduttori. Di particolare rilievo quella relativa alla memoria superveloce a larghezza di banda elevata (Hbm) – considerata vitale per i sistemi di intelligenza artificiale e altre attività informatiche avanzate – con restrizioni sull’esportazione in Cina non solo di Hbm di origine statunitense, ma anche di quella di fabbricazione estera, nel tentativo – ufficialmente – di impedire a Pechino di espandere la sua capacità di intelligenza artificiale nelle applicazioni militari.
Anche se, protetti dall’anonimato, perfino funzionari dell’amministrazione Usa ammettono che i nuovi controlli si estendono ben oltre le applicazioni militari, per frenare l’ascesa tecnologica della Cina.
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