ByteDance, proprietaria di TikTok, trasferirà le operazioni americane della app a un’azienda con sede negli Stati Uniti per evitare la cacciata da parte dell’Amministrazione Trump. È l’ultimo episodio di uno scontro epocale. Mentre l’occidente sognava uno spazio virtuale senza confini, la Cina ha costruito una portentosa rete autoctona
- La Cina conta ormai 900 milioni di netizen che dipendono totalmente dallo smartphone per qualunque aspetto della vita quotidiana. La giornata tipo del quarantenne Lian Qin è scandita dalle app.
- Dalla fine degli anni Novanta il regime ha creato piattaforme alternative a quelle americane e le ha imposte attraverso le infrastrutture e l’alfabetizzazione digitale.
- I recenti provvedimenti dell’amministrazione Trump contro TikTok e altri operatori cinesi descrivono un mondo virtuale sempre più polarizzato e sovranista, in cui i dati non fluiranno più liberamente lungo le autostrade digitali.
La sveglia di Lian Qin inizia a suonare. Sono le 7 del mattino. Il primo gesto del quarantenne cinese è prendere in mano il cellulare e controllare i “momenti” su WeChat (equivalgono ai nostri newsfeed di Facebook). Una volta in piedi scorre qualche video su Douyin, la versione di TikTok sul territorio cinese, mentre fa colazione e si lava i denti. Si accorge di aver finito gli integratori che assume al mattino e allora sfiora con il dito l’icona di Ele.me, la app di delivery di Alibaba: cerca il prodotto, lo paga con il portafoglio collegato al suo account, lo ordina con il riconoscimento facciale ed entro 25 minuti lo riceve direttamente a casa. A quel punto esce e va in ufficio, sull’autobus ascolta musica con l’app Netease Music, mentre con il pollice clicca sul touchscreen per far saltare una pedina da un cubo all’altro nel giochino Tiao yi Tiao. All’ingresso del palazzo dove ha sede la sua azienda, esibisce alla security il “codice digitale di misurazione della salute” sull’account di WeChat o Alipay, ottenuto combinando dichiarazioni spontanee con i trascorsi clinici, il tracciamento degli spostamenti e gli eventuali contatti con individui positivi al Covid-19. Codice verde, il suo: non ci sono rischi. Giallo: consigliati quarantena volontaria e distanziamento sociale. Rosso: quarantena obbligatoria. Al lavoro ordina il pranzo con lo smartphone, il tempo di attesa è di un’ora scarsa.
Nel pomeriggio sceglie di andare in un negozio per cercare una T-shirt. In cassa, paga scannerizzando il QrCode, nelle sue tasche i contanti non esistono più da anni. Tornato a casa, per cena pensa di improvvisare una ricetta trovata su Xiachufang, un’app di tutorial culinari diventata molto popolare durante i mesi di lockdown. In alternativa, spendendo un po’ di più, può prenotare un cuoco che raggiunga il suo appartamento per cucinare. Sceglie la seconda opzione. All’ingresso del condominio scatta la misurazione della temperatura anche per lo chef domestico. Il professionista arriva con gli ingredienti e mentre comincia a spadellare lancia una diretta su WeChat grazie alla quale guadagna valuta digitale da chi, seguendolo, ritiene stia facendo un buon lavoro. Prima di andare a dormire il quarantenne controllerà le ultime notizie su Weibo, il Twitter cinese, e si addormenterà ascoltando un racconto di fantascienza su Ximalaya, un’app di podcast e audiolibri.
Il punto più basso nelle relazioni
La giornata digitale di Lian Qin ricalca quella di un cittadino cinese medio. La Cina conta ormai 900 milioni di netizen, il 99 per cento dei quali usa lo smartphone per connettersi alla rete e quotidianamente spende in media 5 ore e 50 minuti online. Tra quelle citate, la piattaforma con meno traffico vanta 200 milioni di utenti attivi, eppure noi probabilmente non l’abbiamo mai sentita nominare. Esattamente come le altre.
Negli ultimi vent’anni anni, il Celeste Impero ha costruito una sorta di sua intranet, un sistema di internet chiuso, con propri siti e proprie piattaforme, ritagliandosi una posizione di forza che oggi preoccupa più che mai chi fino ad ora ha goduto del monopolio nel controllo della rete: gli Stati Uniti d’America.
I rapporti tra Cina e Stati Uniti sono ai minimi storici dai tempi del primo viaggio del presidente americano Richard Nixon nel 1972, che sancì il riconoscimento della Repubblica popolare come interlocutore dopo decenni di gelo diplomatico. Agli screzi commerciali di questi anni si sommano oggi le accuse sull’origine della pandemia di coronavirus, le tensioni territoriali (Hong Kong, Taiwan, il Mar Cinese meridionale) e quelle legate ai diritti umani (con le vessazioni inflitte alla minoranza etnica musulmana degli uiguri nello Xinjiang). La partita della prossima leadership globale si gioca su un terreno di scontro materiale, che ruota attorno al faraonico progetto della Nuova via della seta, lanciato da Xi Jinping nel 2013 e basato su una proposta di globalizzazione e di nuovo ordine mondiale alternativa a quella degli Stati Uniti.
Esiste poi un terreno di scontro digitale. In una prima fase del conflitto per la futura egemonia della rete, al centro delle ostilità c’è stata la questione sorta attorno al colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei, leader indiscusso nella tecnologia 5G e primo produttore mondiale di smartphone. Già nel 2012 il Congresso americano aveva lanciato l’allarme per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e aveva accusato di spionaggio il gigante tecnologico con sede a Shenzhen. Secondo la Commissione federale per le telecomunicazioni, le aziende americane non avrebbero dovuto affidarsi alle attrezzature e alla componentistica offerte da Huawei e Zte, altro gigante cinese del settore. L’ordine esecutivo per impedire di usare apparecchiature di telecomunicazione prodotte da Huawei, per evitare attività di spionaggio, è stato ratificato dal presidente Donald Trump nel maggio del 2019 e quest’anno è stato prorogato fino al 2021.
Sovranismo digitale
Fino ad ora, l’idea di una rete chiusa ha riguardato paesi non democratici come, ad esempio la Russia e l’Iran. Recentemente, però, anche l’India ha fatto sparire dagli store digitali 59 app cinesi, compresa TikTok, richiamando problemi di privacy e di sicurezza nazionale. Il lancio ad agosto da parte dell’amministrazione Trump del programma “Clean network”, che prevede anche la possibile esclusione dal territorio americano di TikTok e WeChat, segna il passaggio decisivo verso una rete sempre più orientata al «sovranismo digitale», espressione coniata proprio dal Presidente della Repubblica Popolare Xi Jinping nel 2015, durante un discorso alla Word Internet Conference nella cittadina di Wuzhen, vicino a Shanghai.
Da sempre la Cina inquadra le normative legate a internet come questioni di sovranità e sicurezza nazionale, sostenendo che ogni paese deve avere il diritto di determinare cosa possa o non possa attraversare i suoi confini virtuali, istituendo apposite frontiere digitali. Per l’occidente, invece, è la prima volta. Si tratta di un epocale ribaltamento di paradigma: l’idea visionaria di una rete aperta e diritto universale per tutti, di cui gli Stati Uniti sono da sempre i promotori, è stata nei fatti superata dal modello cinese. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Per capirlo bisogna tornare in Cina alla fine degli anni Novanta, al tempo dell’avvento di internet nel Celeste impero. La leadership di Pechino, richiamandosi alla famosa frase di Deng Xiaoping «se si aprono le finestre, entreranno sia l’aria fresca che le mosche», ha cominciato subito a porsi il problema del controllo delle informazioni online. Nel 1998 il Ministero di Pubblica Sicurezza ha creato il Progetto ingegneristico dello scudo d’oro, ribattezzato dal sinologo australiano Geremie Barmé “Great Firewall”, la grande muraglia di fuoco, un sofisticato sistema di filtraggio per i contenuti della rete.
In funzione a partire dal 2006, negli anni si è trasformato in un’infrastruttura in grado di bloccare in maniera sempre più chirurgica parole chiave, immagini e l’accesso a determinati domini sul web. Secondo il Partito comunista cinese, tra i cosiddetti «temi sensibili» da evitare per «salvaguardare la sicurezza nazionale» ci sono la pornografia, le notizie relative agli alti funzionari di partito e ai loro familiari, quelle relative alla provincia dello Xinjiang (dove circa un milione di musulmani di etnia uigura è costretto nei campi di rieducazione), le manifestazioni ad Hong Kong, e le “tre T”: Taiwan, Tibet e Tiananmen. Al filtro del Great Firewall si è presto affiancato il cosiddetto «partito dei 50 centesimi». Quelli che noi liquideremmo con il termine troll, in Cina hanno costituito un esercito di utenti della rete remunerati da Pechino con uno stipendio fisso e un incentivo, di 50 centesimi, per ogni intervento filogovernativo pubblicato online.
Il partito dei 50 centesimi ha per molto tempo scandagliato e orientato le opinioni su siti e piattaforme, prodotto contenuti a sostegno del partito unico e sviato l’attenzione dell’opinione pubblica quando c’era il rischio che montassero polemiche potenzialmente destabilizzanti per il sistema. Oggi molte di queste attività di controllo e propaganda sono state demandate all’efficienza solerte dell’intelligenza artificiale.
La censura cinese si è progressivamente perfezionata fino a bloccare, sempre per «ragioni di sicurezza», l’accesso alle piattaforme della Silicon Valley. Facebook è stato il primo social a diventare inaccessibile dopo gli scontri in Tibet nel 2008, seguito nel tempo da Twitter, Instagram, WhatsApp, Wikipedia, Google, i siti del New York Times, della Bbc e così via. Per gli occidentali che si trasferiscono o compiono un viaggio in Cina, scaricare un Virtual Private Network (Vpn) è l’unico modo per accedere al mondo virtuale a cui appartengono e sono abituati. Senza Vpn, software a pagamento che permettono di collegarsi da server situati al di fuori del territorio cinese e quindi immuni al filtro del Great Firewall, bisogna rassegnarsi al frustrante spettacolo di una pagina bianca con la scritta “Page not found”.
Nel 2010 gli Stati Uniti hanno cominciato a studiare la possibilità di un ricorso alla World trade organization contro la censura cinese, ma è stato solo nel 2016 che l’ufficio del rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America (Ustr) l’ha definita per la prima volta una barriera commerciale, senza che però ci siano state conseguenze significative. Le aziende americane, nel frattempo, hanno cercato di accedere (spesso senza successo, Facebook rimane il caso più emblematico) al mercato digitale del Dragone, anche accettando di sottostare alle sue regole illiberali. Nel 2017, la decisione di Apple di eliminare dal suo store cinese i Vpn ha attirato parecchie critiche da parte dell’establishment politico statunitense e dei sostenitori dei diritti umani.
Al cittadino cinese medio come il quarantenne Lian Qin, tuttavia, il «nostro internet» non manca né interessa granché. Negli ultimi decenni la Repubblica popolare cinese ha portato avanti una politica di incentivi finalizzata al passaggio dalla produzione di quantità a quella di qualità. Lo sviluppo della rete, della robotica, dell’intelligenza artificiale, dei veicoli a guida autonoma, delle tecnologie green e delle smart city l’hanno trasformata in un paese all’avanguardia tecnologica. La graduale esclusione delle aziende competitor americane e l’assenza di rivali stranieri hanno permesso la creazione di hardware e software 100 per cento made in China e la nascita di un’internet parallela «con caratteristiche cinesi».
Sono sorti portali web autoctoni che, grazie al gigantesco numero di utenti, hanno permesso alle aziende produttrici di diventare colossi tecnologici mondiali in tempi record. Baidu al posto di Google, YouKu al posto di YouTube, Weibo al posto di Twitter, Alibaba al posto di Amazon e via dicendo. Inizialmente definite in Occidente col termine dispregiativo copycat, imitazioni delle piattaforme ideate nella Silicon Valley, ben presto hanno cominciato ad attirare attenzioni sul loro operato.
WeChat fa tutto
Un esempio su tutti è quello di WeChat, la superapp creata nel 2011 dalla cinese Tencent che ha letteralmente rivoluzionato le abitudini quotidiane degli abitanti del Celeste Impero, tanto che ormai, come sostiene lo scrittore di fantascienza Chen Qiufan, «nella Cina odierna è impossibile immaginare che un individuo possa sopravvivere in una città senza smartphone». Con WeChat i cinesi sono in grado di fare qualsiasi cosa. L’app ingloba le funzioni dei nostri WhatsApp, Google, Facebook, Uber, Twitter, Instagram, Amazon, PayPall, Skype e chi più ne ha più ne metta, e soprattutto permette di compiere una serie di operazioni che in Occidente non hanno ancora raggiunto i cellulari degli utenti. Gli ospedali hanno le loro liste d’attesa all’interno di WeChat ed è pertanto possibile servirsi dell’app per prenotare una visita medica specialistica. In alcune aree del paese, addirittura, l’account di WeChat è già valido come sostitutivo della carta d’identità.
La forza dell’app di Tencent è quella di essere una sorta di ecosistema autosufficiente che permette una miriade di funzionalità concrete senza mai abbandonare l’applicazione. Utilizzata per una media di quattro ore al giorno da ogni fascia della popolazione, compresa quella rurale grazie alla continua espansione di infrastrutture anche nelle aree più remote del paese e quella più anziana in seguito a campagne di alfabetizzazione digitale di massa, permette all’azienda proprietaria dell’app una raccolta di dati senza eguali. Informazioni sui singoli individui a 360 gradi: gusti, interessi, stili di vita, mobilità, stato di salute.
Un altro caso esemplare è proprio quello di TikTok, l’app che in brevissimo tempo ha conquistato due miliardi di utenti in tutto il mondo diventando un must tra gli adolescenti, in grado di proporre contenuti su misura grazie al massiccio reperimento di dettagliatissime informazioni sul comportamento di chi ne fruisce.
Non stupisce dunque che le aziende americane siano allarmate per il successo degli algoritmi del Dragone e tentino di carpirne i segreti, e che nel caso di TikTok la Cina, davanti alla prospettiva di una vendita forzata delle attività americane, opponga resistenza a cedere agli Stati Uniti anche il suo sofisticato know how: al cuore della questione ci sono i dati e la loro raccolta, campi su cui si giocherà la partita della leadership mondiale nei prossimi decenni e in cui il Celeste impero al momento sembra essere in vantaggio, sia per l’immenso bacino di netizen da cui può attingere, sia per una concezione della privacy che per radici storiche e culturali è molto meno fiscale della nostra.
Secondo uno studio della società di consulenza informatica cinese Technode, entro il 2025 la somma di dati creati, collezionati o copiati in Cina aumenterà da 7,5 miliardi di Terabyte a 46,6 miliardi di Terabyte, e sarà equivalente al 27,8 per cento dei dati di tutto il mondo. Nello stesso periodo i dati americani peseranno per il 17,5 per cento.
I provvedimenti contro Huawei e i social cinesi dell’amministrazione Trump si inseriscono in questo contesto e ci conducono verso un mondo virtuale sempre più polarizzato, in cui i dati - secondo il modello di Pechino che prevede la permanenza delle informazioni sui server cinesi anche se raccolte da aziende straniere - non fluiranno più liberamente lungo le autostrade digitali prescindendo dai confini geografici e dalle loro bandiere. Il nascente bipolarismo digitale tenderà a riflettere sempre di più gli equilibri geopolitici mondiali, di fatto già suggeriti dalla diffusione di Huawei nel mondo: capillarmente presente in Africa e Sud America, sempre più esclusa dai territori degli alleati storici degli Stati Uniti.
I Big Data rappresentano il «petrolio del futuro». La contrapposizione tra Cina e America sul terreno digitale ci farà assistere probabilmente a nuove guerre tra social e a feroci scontri tra le app che abitano i nostri smartphone. Saremo chiamati a una scelta di campo, nella consapevolezza che tra le preziose informazioni personali oggetto del contendere ci sono anche le nostre.
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