I grandi colossi hanno solo una missione: avere meno regole e più potere. È un progetto che prescinde da chi sarà il futuro inquilino della Casa bianca. Anche perché Kamala Harris ha storicamente legami molto forti con la Silicon Valley
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La storia di Kamala Harris si intreccia strettamente con la California, dove è nata. È lo stato dove la sua vittoria alle elezioni di novembre non è in dubbio. Il posto dove è cresciuta sin da bambina, dove – racconta nella sua autobiografia – nel 1988 ha iniziato a coltivare più seriamente le sue ambizioni, durante uno stage estivo nell’ufficio del procuratore distrettuale, a Oakland. E dove quelle ambizioni ha realizzato, fino a diventare senatrice, prima di essere scelta da Biden come vicepresidente.
È naturale dunque pensare che abbia una certa conoscenza personale della Silicon Valley. Eppure questi legami, che ovviamente coinvolgono in maniera più larga il partito democratico e alcuni loro ricchi sostenitori, ora devono essere riletti anche alla luce di un aspetto forse più cruciale. E che si può riassumere in questa domanda: quale sarà l’atteggiamento del futuro inquilino della Casa bianca nei confronti dei colossi della tecnologia?
Il trumpismo rimarrà
È un interrogativo che, un po’ a sorpresa, potrebbe persino prescindere dal nome del futuro presidente. Cory Weinberg, giornalista che lavora a The Information – la testata più importante per il settore e con fonti molto qualificate nella Silicon Valley – ha sostenuto che «per la tecnologia il trumpismo è destinato a sopravvivere, anche se Trump dovesse non essere eletto».
C’entra ovviamente il fatto che Elon Musk abbia deciso di schierarsi, fino a diventare quasi più trumpiano di Trump stesso. E così hanno fatto altri grandi finanziatori come Marc Andreessen e Ben Horowitz, che continueranno a rimanere influenti anche dopo il voto. C’entra poi il fatto che esista una costellazione di nuovi media indipendenti – come la newsletter “Pirate Wires” o il podcast “All in”, giusto per fare due esempi – che trattano di tecnologia con un orientamento spinto a destra.
Ma c’entra ancora di più il fatto che esistano due schieramenti opposti, che hanno paradossalmente adepti sia fra i democratici sia fra i repubblicani. Il primo, lo schieramento che sembra più in crisi, è quello di chi vorrebbe fare la guerra ai colossi della tecnologia, mettendo più regole, ostacolando i monopòli e immaginando un progresso che crei meno disuguaglianze. Il secondo è invece lo schieramento di chi vorrebbe meno lacci per la tecnologia, per garantire più ricchezza (anche se sta nelle mani di pochi) e progresso, anche per riuscire a stare al passo con la concorrenza della Cina.
L’atteggiamento di Biden
La tradizione vorrebbe che il primo sia il terreno ideale di liberal e progressisti, mentre il secondo dei conservatori. In realtà, questa campagna elettorale ha reso evidente come il confine non sia più così netto: come la realtà sia diventata più complicata e per molti aspetti più liquida.
Il mito che la rivoluzione digitale avrebbe portato per forza a un mondo migliore è franato contro la realtà, fatta di interessi nelle mani di pochi, di scandali, di potere senza argini e di nuove tecnologie che potrebbero ampliare ulteriormente le disuguaglianze.
Per reazione, esiste un forte movimento filosofico che vorrebbe riportare la tecnologia alle promesse tipiche del sogno originale: uno sviluppo più umano, più condiviso e dunque più democratico. Pur con tutte le difficoltà e i limiti, Biden ha cercato di interpretare questo pensiero. Lo ha fatto con scelte dirompenti, come quella di mettere a capo dell’Antitrust Lina Khan, una giurista diventata famosa per i suoi studi contro lo strapotere di Amazon.
Anche Vivek Murthy – ovvero il surgeon general, il massimo funzionario responsabile della sanità pubblica – ha chiarito che alcune questioni legate alla tecnologia sono diventate un’emergenza nazionale che non può essere più rimandata. Lo ha fatto ad esempio sottolineando le gravi conseguenze dei social network sulla tenuta psicologica degli adolescenti.
Verrebbe da pensare che tutta questa eredità possa essere colta da Kamala Harris se sarà presidente, con delle azioni ancora più incisive. In realtà non è detto che sarà così; oltre ad una facciata puramente teorica, innestata all’interno della piattaforma democratica, ci sono dubbi concreti su quali saranno eventualmente le sue politiche. Anche perché c’è una lobby potentissima che si è messa in moto da tempo e che vuole solo una cosa: più potere e meno regole.
Modello Hoffman
Ed è forse questo il motivo vero per cui la rinuncia di Biden e la candidatura di Kamala Harris sono state accolte con grande entusiasmo nella Silicon Valley, come si evince dalla quantità di donazioni che sono arrivate per la campagna elettorale democratica. Pensare che ci sia una semplice condivisione di valori potrebbe essere limitativo, rispetto alle ambizioni di chi ha comunque come orizzonte principale il destino della propria azienda o dei propri finanziamenti.
È il caso ad esempio di Reid Hoffman, venture capitalist miliardario, fra i fondatori di LinkedIn, democratico convinto e in passato sostenitore proprio di Biden. Parlando alla Cnn, Hoffman si è espresso fortemente a favore di Harris, alla quale per altro ha donato decine di milioni di dollari.
Hoffman ha messo sul piatto la richiesta di un cambiamento sostanziale, chiedendo che l’attuale vicepresidente non segua l’esempio dell’amministrazione Biden. Ha chiesto, innanzitutto, che venga sostituita Lina Khan, che è diventata il simbolo di tutte le azioni giudiziarie contro i colossi della tecnologia.
In altre parole – che non sono quelle di Hoffman, ma che esprimono bene il pensiero dei grandi capitalisti tecnologici della Silicon Valley – gli Stati Uniti del futuro dovranno sostenere l’evoluzione tecnologica, senza impantanarla in un insieme di regole. Ovvero, il modello americano deve allontanarsi da quello dell’Unione europea.
Legami difficili
Ma i legami fra Kamala Harris e i colossi della tecnologia sono in realtà ben più profondi e coinvolgono anche aspetti personali. Il suo cognato, Tony West, anche lui californiano, è il responsabile legale di Uber, dove ha anche il ruolo di vicepresidente.
Un articolo molto citato del 2020 del New York Times, sottolineava già come Harris avesse costruito tutta la sua carriera politica grazie ai legami con Big tech, che le hanno portato forti finanziamenti che le hanno permesso di diventare prima procuratrice generale, poi senatrice e dunque vicepresidente.
Nel 2010 realizzò il sogno – secondo la sua definizione – di presentare la propria candidatura a procuratrice generale nel campus di Google; alcuni dei più grandi capitalisti della tecnologia la stavano ad ascoltare, con una mano ben stretta sul loro portafoglio virtuale.
È difficile pensare che le cose possano essere cambiate. Tornando all’articolo di quattro anni fa, il New York Times scriveva che questi legami «hanno coinciso con un approccio sostanzialmente non interventista nei confronti di aziende che sono state sottoposte a un esame sempre più attento da parte di enti regolatori e legislatori in tutto il mondo».
«Secondo i critici, quando Harris era procuratrice generale della California ha fatto poco per frenare il potere dei giganti della tecnologia mentre inghiottivano i rivali e si facevano largo in nuovi settori. Come senatrice, si è spesso mossa di pari passo con gli interessi della tecnologia».
Ed è forse per questo, soprattutto per questo, che si è diffusa l’idea che non sia poi troppo importante chi sarà eletto dopo novembre. C’è una forma di potere che sta lavorando per essere sostanzialmente indipendente rispetto alla Casa bianca, chiunque sia il suo futuro inquilino.
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