- Dopo il clamoroso flop elettorale di dicembre il presidente Saied deve fare i conti con prezzi alle stelle, scarsità di beni primari e inflazione galoppante.
- A rischio l’accordo con il Fmi per un pacchetto di circa 2 miliardi di dollari di prestito nel 2023.
- E le auto-immolazioni di emulatori di Mohamed Bouazizi non sono mai cessate.
Sono lontanissimi i tempi in cui, sull’onda dell’entusiasmo della Rivoluzione dei gelsomini e della cacciata del presidente Ben Ali, il fermento politico in Tunisia portava il 70 per cento degli aventi diritto al voto.
Il 23 ottobre 2011 si eleggeva l’Assemblea costituente e, grazie a una campagna di convincimento fatta da migliaia di attivisti in tutto il paese nell’estate precedente, quattro milioni di tunisini, molti dei quali non avevano mai votato, erano andati felici alle urne.
Flop elettorale
Undici anni dopo un paese triste, impoverito e disilluso ha disertato in massa i seggi facendo registrare un nuovo record, questa volta negativo.
Il misero 11,2 per cento raggiunto alle elezioni parlamentari svoltesi il 17 dicembre scorso segna il punto più basso da quando la Tunisia, esattamente 12 anni fa, si è avventurata su un percorso che l’ha portata a essere l’unico paese “primaverile” ad aver scelto una via realmente democratica e ad aver imboccato un processo mai sfociato in conflitto.
Un risultato addirittura più basso di quello, già pessimo, registrato a luglio, quando il presidente Kais Saied ha chiamato il popolo alle urne per un referendum costituzionale (stravinto con oltre il 90 per cento dei consensi) che segnava una svolta autocratica e, praticamente, esautorava governo e parlamento per blindare il potere presidenziale.
Per il sessantacinquenne Saied, giurista e musulmano conservatore, salito al potere nel 2019, è una sonora sconfitta che giunge al culmine di un percorso inizialmente visto con favore dal popolo per le promesse di tolleranza zero verso la corruzione e le scaramucce partitiche che stavano portando il paese al blocco politico totale: nove cambi di governo in dieci anni e stallo nelle riforme.
Da quella simpatia iniziale, il mood popolare si è ormai trasversalmente trasformato in un sentimento che oscilla tra l’ostilità e quell’indifferenza tipica del periodo pre-rivoluzionario, quando la partecipazione attiva alla politica era considerata senza senso dai più.
Saied, in realtà, sembra non curarsene. Prima ha minimizzato e rilanciato accuse pensatissime a presunte ingerenze esterne. «Un’affluenza del 9 o del 12 per cento – ha dichiarato all’indomani del voto durante un incontro con la premier Najla Bouden – è preferibile a quella del 99 per cento annunciata nelle precedenti elezioni acclamate da capitali straniere sapendo che erano truccate».
Poi se l’è presa con un non ben identificato «complotto contro la sicurezza interna ed esterna dello stato» e, infine, ha proseguito sulle misure draconiane.
Il 30 dicembre ha esteso lo stato di emergenza per un altro mese e aumentato le preoccupazioni per una svolta sempre più autocratica. La stato di emergenza, infatti, istituto anni prima per i gravi atti di terrorismo islamico moltiplicatisi nel paese, ora drasticamente diminuiti, non può più essere giustificato con l’urgenza della sicurezza.
Le organizzazioni tunisine per i diritti, non a caso, denunciano l’utilizzo della misura drastica per la repressione sistematica degli oppositori. In un rapporto pubblicato a febbraio da Human Rights Watch si legge che «l’imposizione di misure eccezionali dello stato di emergenza include l’occultamento di detenzioni segrete».
La grave crisi economica
Ma il malcontento, oltre che per la politica, serpeggia per l’economia. Da mesi mancano nelle rivendite i beni di prima necessità e la gente fa la fila per un chilo di burro o un litro di latte. Scarseggiano pane, zucchero e i prezzi dei beni primari sono alle stelle.
L’inflazione, nel frattempo, ha raggiunto livelli record: secondo la Banca centrale dovrebbe toccare l’11 per cento nel 2023 ben tre punti più in alto del 2023. La popolazione teme fortemente per un precipitare degli eventi e pone al primo posto delle proprie preoccupazioni la situazione economica.
Il sito di indagine Afrobarometer fotografa questo sentimento con numeri indubitabili: per il 94 per cento dei cittadini il problema maggiore è la gestione dell’economia, seguito dalla disoccupazione (45 per cento) e dalla povertà (21).
La tanto agitata sicurezza, giace al quinto posto con un 18 per cento. Il paese, inoltre, sta lottando contro un debito pari a quasi il 90 per cento del suo Pil e a metà ottobre ha raggiunto un accordo di massima con il Fondo monetario internazionale per un pacchetto di circa 2 miliardi di dollari di prestito nel 2023.
Ma la firma tarda ad arrivare e se l’accordo non verrà siglato a breve la situazione, come ha affermato Marouane El Abassi il capo della Banca centrale lo scorso 4 gennaio, «sarebbe davvero dura». «Siamo tutti impauriti di una libanizzazione della Tunisia e temiamo per un tracollo simile se non peggiore di quello del paese arabo – spiega Amina Ben Fadhl, un’attivista coordinatrice dei progetti dell’ong Cospe in Tunisia – La crisi economica va avanti da prima di Saied e credo che molti gli riconoscano l’estraneità alla corruzione. Il problema è che speravamo in un cambiamento che non è mai avvenuto. Inoltre c’è un grosso problema di comunicazione politica, nessuno ci informa delle vere problematiche del paese, non esiste un portavoce ufficiale del governo né del presidente. Saied sembra fare soliloqui o si affida a post su Facebook: tutto ciò aumenta il timore che non ci sia una reale strategia per uscire dalla crisi. Siamo certi che non torneremo mai più in una dittatura, ma tutti i poteri nelle mani di un presidente che non comunica ci spaventano».
I giovani continuano a darsi fuoco
L’estrema difficoltà economico-sociale in cui versa il paese è evidenziata anche da un fenomeno che da Moahmed Bouazizi, il giovane ambulante che si è dato fuoco nel gennaio del 2011 dando il via alle rivolte, non ha mai perso di triste popolarità.
Le auto-immolazioni continuano a essere la forma di protesta estrema utilizzata da molti tunisini colpiti da povertà e disoccupazione.
Il picco è stato raggiunto nel 2016 con circa 100 casi mentre dal 2019 ne avvengono una media di dieci all’anno. Le ultime quattro tra il novembre e il dicembre scorso. Non tutte si concludono con la morte ma i segni che lasciano sui corpi degli autori e sul paese intere sono indelebili.
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