Alle elezioni tunisine hanno votato solo l’8.8 per cento degli aventi diritto, a dimostrazione che l’empasse politico è destinato a durare mesi mentre il paese vive una profonda crisi economica
Meno di un milione di voti (803.638 su 9.136.502 elettori registrati) e un’affluenza alle urne che sfiora l’8.8 per cento. Le elezioni legislative tunisine del 17 dicembre sono state una sconfitta totale per il presidente Kais Saied. Nonostante la sfiducia nei confronti della situazione politica del paese, un’affluenza al di sotto della doppia cifra era difficilmente prevedibile. Ora per Saied lo scenario è sempre più complicato. I tunisini hanno lanciato un segnale chiaro e hanno delegittimato di fatto il colpo di mano istituzionale con il quale nell’ultimo anno e mezzo il presidente tunisino ha sciolto il parlamento e dismesso il Consiglio superiore della magistratura.
L’affluenza registrata dalla Commissione elettorale è molto lontana da quella delle ultime due elezioni legislative. Nel 2014 il parlamento è stato eletto con il 60 per cento dei voti, mentre nel 2019 con il 40 per cento. Tuttavia, già alla vigilia si prospettava un voto complicato.
Diverse circoscrizioni del paese sono andate deserte per mancanza di candidati. In questo senso il boicottaggio dei più importanti partiti del paese ha funzionato. Gli stessi partiti ora chiedono le dimissioni del presidente. Dopo i risultati del voto, la coalizione d’opposizione il Fronte della Salvezza, che racchiude anche il partito islamista Ennahda, ha chiesto a Saied di dimettersi e all’opposizione di organizzare «proteste di massa e sit-in» per chiedere nuove elezioni presidenziali.
Il messaggio degli Stati Uniti
A qualche giorno dall’apertura delle urne il presidente tunisino aveva rassicurato il Segretario di Stato americano Antony Blinken su un’eventuale deriva autoritaria del paese, assicurando che le sue dure e imposte azioni politiche sono state necessarie per evitare una guerra civile. Ma il risultato del voto è preoccupante anche per Washington che, se da una parte attraverso il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, considera «le elezioni parlamentari che si sono svolte in Tunisia il 17 dicembre rappresentano un primo passo fondamentale per ripristinare la traiettoria democratica del paese», dall’altra vuole anche dettare le sue condizioni.
«Mentre il processo elettorale prosegue fino al 2023 – ha aggiunto il portavoce – ribadiamo l’importanza di adottare riforme inclusive e trasparenti, tra cui il conferimento di poteri a una legislatura eletta, l’istituzione di una Corte costituzionale e la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti i tunisini». Il comunicato della Casa Bianca si conclude anche con l’adozione di riforme per salvare l’economia del paese.
I prossimi passi
Il nuovo parlamento non entrerà in funzione prima del risultato di eventuali ballottaggi che si sapranno verso il mese di marzo. A questo si somma l’attesa per le rielezioni straordinarie nelle circoscrizioni vacanti nelle quali non si è presentato alcun candidato.
L’empasse politico è destinato a durare mesi a meno che Saied non faccia un passo indietro o non ci siano manifestazioni di massa che mettano seriamente in discussione il suo operato. Nel caso in cui il presidente tunisino rimanga al potere si troverà a dialogare con un parlamento sottratto dei suoi poteri. La riforma costituzionale scritta da Saied e approvata soltanto con il 30 per cento di affluenza al referendum che si è tenuto nel luglio del 2022 ha virato la Tunisia verso una forma di stato ultra presidenziale.
Il paese si ritrova con un parlamento che non gode più di quei meccanismi di controllo nei confronti dell’esecutivo. Mentre la nuova legge elettorale depotenzia anche il ruolo dei partiti che anche per questo hanno deciso di boicottare le elezioni.
A dodici anni di distanza dall’immolazione di Mohammed Bouazizi, che si diede fuoco in piazza nella cittadina dell’entroterra di Sidi Bouzid, e dalla rivoluzione tunisina il paese si trova di nuovo nel pantano politico con un’economia in seria difficoltà acuita prima dalla pandemia e poi dalla guerra in Ucraina.
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