- Erdogan e Assad potrebbero incontrarsi presto, dopo i loro ministri e capi dell’intelligence
- Putin svolge un ruolo da mediatore: tra interessi divergenti vuole stabilizzare l’influenza russa nell’area
- Israele e arabi del Golfo vedono l’Iran in Siria come una minaccia. Gli Usa devono decidere come rimanere in gioco mentre l’Europa è assente
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta considerando un incontro con il leader siriano Bashar al Assad.
Oltre agli effetti immediati sui curdi del Rojava e sull’enclave di Idlib, si tratta di un’altra mossa del leader turco che prepara una svolta geopolitica di grande rilievo. Innanzitutto va sottolineato che la mediazione tra Turchia e Siria è di Vladimir Putin: da tempo il presidente russo è interessato a ricucire il rapporto tra i due vicini, nell’interesse del ruolo russo in medioriente.
Tale iniziativa non è da prendere alla leggera o da leggere soltanto in funzione anti-curda. Da tempo il capo del Cremlino sta facendo pressioni per una riconciliazione siro-turca e ora pare che possa avere successo proprio perché la Turchia è diventata uno snodo cruciale nello scenario della guerra in Ucraina.
Recentemente Erdogan ha valutato con ottimismo la possibilità di ricomporre lo strappo con Damasco: Russia, Turchia e Siria hanno avviato un processo di avvicinamento con l'incontro dei capi dell'intelligence, seguito da quello dei ministri della Difesa a Mosca. Manca ancora il passo con i ministri degli esteri.
Il rischio rottura con gli islamisti
Se tutto procederà nel senso auspicato, la tappa finale sarà l’incontro tra i tre leader. L’opposizione siriana jihadista filo-turca raccolta nella zona attorno a Idlib è avvisata: per adesso Erdogan ha sospeso l’idea di compiere un’offensiva contro il Rojava e medita di chiedere alla Siria di farlo.
I vari movimenti islamisti sono in subbuglio: si erano preparati da quasi un anno per sostenere l’esercito turco nell’attacco contro i curdi e ora temono di diventare la vittima sacrificale di un voltafaccia politico. D’altronde la Siria aveva sempre fatto capire di essere assolutamente contraria ad un allargamento turco sul suo territorio. Casomai – sostengono i siriani – degli ultimi islamisti radicali e dei curdi se ne deve occupare l’esercito lealista di Assad.
Lo stesso ministro turco della Difesa ha dovuto mettere in guardia i gruppi di opposizione sostenuti da Ankara perché evitino «provocazioni che turbino il potenziale riavvicinamento tra Siria e Turchia», assicurando al contempo che non saranno svenduti se tale processo andrà avanti.
Ma a Idlib nessuno si fida più, ben conoscendo la spregiudicatezza di Erdogan e la sua capacità di cambiare schema. Nella zona filo-turca si stanno svolgendo manifestazioni di protesta organizzate dalle milizie islamiste contrarie alla possibile distensione tra turchi e siriani.
Dal canto loro i curdi siriani continuano a stare in agguato: finora sono stati favoriti dalla contrapposizione tra Damasco e Ankara, appoggiandosi all’esercito di Assad in numerose occasioni. Ma ora sono rimasti soli, con un pugno di soldati Usa a difenderli.
Sanno che la Turchia vuole eliminarli, distruggendo la struttura politico-militare delle Sdf (forze democratiche siriane) e dello Ypg (unità di difesa popolare), che considera collegate al Pkk, il partito dei lavoratori curdi. Addirittura c’è chi pensa che un eventuale accordo Erdogan-Assad potrebbe vedere turchi e siriani attaccare assieme per creare la nota “cintura di sicurezza” profonda 30 chilometri.
Più volte Erdogan si è espresso nel senso di una totale distruzione di ogni presenza armata curda e per ottenerlo potrebbe anche abbandonare l’idea di occupare stabilmente pezzi di Siria. Gli interessi del leader turco in Siria sono legati alle sue priorità politiche interne. Le elezioni si avvicinano e l’opposizione turca si è da sempre schierata a favore di una rappacificazione con la Siria.
Pesa la questione dei rifugiati: Ankara ospita quasi quattro milioni di siriani che mettono a dura prova l'economia e la stessa convivenza. In aggiunta c’è il problema dell'aumento dell’inflazione che rimane allarmante e mette a rischio la finanza pubblica: non è più il tempo di grande spese statali per mantenere i siriani ed eventualmente naturalizzarli. Erdogan sa che quell’ipotesi è ormai fallita.
La posizione di Mosca
Dal canto suo la Russia desidera stabilizzare la Siria, sia per contrastare l'influenza statunitense (e iraniana), che per liberarsi di un peso eccessivo ora che ha bisogno di concentrarsi sulla guerra in Ucraina.
Com’è noto, l’intervento russo in Siria nel 2015 ha salvato il governo di Assad dal collasso. Putin può ascrivere la campagna di Siria tra i suoi più grandi successi ma nel contempo vorrebbe condividerne il peso con l’alleato turco con il quale in questi anni è riuscito ad intessere un’efficace relazione di convergenza.
Dal 2016 i russi puntano sul cosiddetto "gruppo di Astana" (composto da Russia, Iran e Turchia) per gestire e coordinare i loro interessi in Siria, soppiantando sia l'influenza occidentale che quella delle Nazioni unite: il processo di pace di Ginevra è definitivamente bloccato.
Inoltre c’è da considerare la posizione di Israele. C’è il timore diffuso che il nuovo governo di Benjamin Netanyahu sia tentato di intervenire direttamente in Siria in funzione anti-Teheran: il radicamento iraniano a Damasco è considerato dagli israeliani come un pericolo esistenziale. La Russia ha fretta perché vuole evitare che la Siria ridiventi un campo di battaglia, questa volta tra le forze iraniane e Israele, il che potrebbe rimettere in discussione tutti gli attuali equilibri.
Anche gli Emirati e gli altri stati arabi del Golfo desiderano la normalizzazione con Damasco per diminuire l’influenza irano-sciita e far uscire la Siria dal suo attuale stato di fallimento economico. Infine gli Stati Uniti: per ora la politica di Washington preme sull’accesso umanitario, l’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani, il sostegno al processo politico delle Nazioni unite e la prevenzione anti-daesh. Si tratta di priorità dettate sostanzialmente dal Congresso.
Ci sono circa 800 marines in Siria che lavorano con l’Sdf curdo. Tale collaborazione è ben vista al Pentagono: massima resa per un minimo sforzo. Anche gli americani vorrebbero ridurre la presenza iraniana in Siria ma hanno lo stesso problema in Iraq che ha la precedenza. Tra interessi turchi e israeliani, gli Usa devono ancora decidere come destreggiarsi cercando di contrastare l’influenza russa. Unica assente dal quadrante siriano è ancora una volta l’Europa.
© Riproduzione riservata