Dopo dieci anni è arrivata la sentenza del “processo Kobane” contro gli esponenti del partito filo-curdo, mentre il presidente vuole cambiare la Costituzione per rimanere al potere
Nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan non c’è spazio per l’opposizione né tanto meno per la democrazia. A ribadire ancora una volta la posizione sempre più illiberale del capo di Stato turco sono da una parte il verdetto sul cosiddetto “processo Kobane”, dall’altra le mosse politiche portate avanti da Erdogan per garantirsi un terzo mandato presidenziale. I due temi possono sembrare scollegati l’uno dall’altro, ma in realtà si influenzano vicendevolmente e letti insieme permettono di fare delle previsioni per niente rosee sul futuro della Turchia.
La sentenza del processo Kobane arriva dopo dieci anni dall’apertura delle indagini a carico di 108 persone, tra le quali rientrano gli ex copresidenti del partito filocurdo Hdp Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ e diversi membri del comitato centrale del partito, diciotto dei quali già in carcere.
Il processo era stato aperto a seguito delle proteste scaturite ad ottobre 2014 nel Sud-Est a maggioranza curda contro l’assedio da parte dell’Isis della città siriana di Kobane, considerata il simbolo della resistenza delle forze curde Ypg/Ypj. La violenza della polizia contro i manifestanti causò la morte di 37 persone, mentre il clima di tensione generale portò alla fine del processo di pace tra lo Stato turco e il Partito dei lavoratori curdo (Pkk) iniziato nel 2013.
Sul piano giudiziario, alle proteste fece seguito l’arresto di più di cento esponenti dell’Hdp e l’avvio di un processo di stampo politico volto a indebolire l’opposizione curda e la figura di Demirtas. Sotto la sua presidenza, il partito è arrivato al 13 percento delle preferenze nel 2015, mentre lo stesso Demirtas ha ottenuto l’8,4 per cento dei voti in occasione delle presidenziali del 2018, pur trovandosi già in cella.
L’ex copresidente ha continuato a essere una figura di spicco del movimento curdo anche dal carcere, influenzando le preferenze di voto degli elettori curdi in occasione delle elezioni comunali e presidenziali susseguitesi negli anni. Non sorprende quindi che la pena inflitta a Demirtas sia quella più dura: il leader curdo è stato condannato a 42 anni di carcere con l’accusa di sostegno alla distruzione dell’unità e integrità dello Stato, istigazione alla rivolta e a compiere atti criminali e omicidio.
La copresidente Yüksekdağ, invece, dovrà scontare 30 anni e tre mesi e molti altri sono stati condannati all’ergastolo. Positivo invece l’esito per Gültan Kisanak, ex sindaca di Diyarbakir, e Sebahat Tuncel, ex parlamentare e attivista femminista curda, entrambe rilasciate dopo anni di carcere preventivo.
La decisione dei giudici turchi è stata immediatamente condannata da Tuncer Bakirhan, attuale copresidente del Dem, nuova sigla sotto cui si sono riuniti gli esponenti dell’Hdp, e ha causato nuove proteste nelle province curde del sud-est. Anche il leader del principale partito di opposizione, Ozgur Ozel, si è espresso contro la sentenza della Corte e ha definito quello di Kobane “un processo politico”.
Riforma costituzionale
La presa di posizione di Ozel e il verdetto dei giudici turchi non erano per nulla scontati. Il partito repubblicano Chp ha da sempre un rapporto ambiguo con la minoranza curda e si è limitato a stringere delle alleanze strategiche in occasione delle elezioni.
Allo stesso tempo vi era la speranza che la sconfitta elettorale subita dal partito di Erdogan alle consultazioni municipali di fine marzo portasse il presidente ad approvare delle riforme democratiche, ma il verdetto di Kobane ha messo un punto a speculazioni di questo tipo.
Ad aggravare la situazione sono poi le manovre di Erdogan per continuare a guidare il paese anche dopo la fine del suo secondo – e in teoria ultimo – mandato.
Una prima opzione sarebbe quella di chiedere elezioni anticipate, ma la mossa potrebbe causare una perdita di fiducia da parte dell’elettorato. In alternativa, il presidente potrebbe modificare la Costituzione ed eliminare il limite attualmente vigente dei due mandati.
Un cambiamento possibile solo con il sostegno dell’opposizione, che Erdogan sta da tempo corteggiando con la promessa di un abbassamento della soglia di sbarramento per la vittoria dal 50 percento+1 al 40+1 delle preferenze.
Per Erdogan, la soluzione migliore sarebbe l’approvazione delle modifiche costituzionali in ambito parlamentare, senza passare per un referendum popolare che rischia di trasformarsi in un voto di fiducia nei confronti del presidente. Rispetto al 2017, quando la Costituzione fu emendata per la prima volta da Erdogan, il gradimento del leader turco è in calo, mentre quello delle figure di spicco dell’opposizione continua a salire.
Molto dunque dipenderà dalle valutazioni interne al Chp. Un abbassamento delle preferenze per la vittoria è sicuramente allettante, ma non basta per garantire la vittoria dell’opposizione. Inoltre, il successo del partito kemalista è stato possibile anche grazie al sostegno dei curdi, che potrebbero non apprezzare il sostegno a una modifica costituzionale voluta da Erdogan.
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