- Settimane fa a Damasco è stato ucciso da un’autobomba il Gran Muftì, la massima autorità religiosa ufficiale del paese. L’attentato dimostra che i nemici di Assad rimangono vitali: se possono colpire a Damasco tanto più lo possono fare in Europa.
- Recentemente, nel vicino Libano, si è accesa qualche luce di speranza. Saad Hariri è stato reincaricato dal presidente Aoun di formare un governo.
- Nello scenario geopolitico generale, un accordo Libano-Israele peserebbe molto andando anzitutto a discapito della Turchia. Sarebbe un modo per rafforzare l’asse energetico orientale che da Israele raggiunge l’Italia.
Gli attentati di Parigi, Nizza e Vienna risvegliano le paure di un’Europa distratta dal Covid-19 e ripiegata su sé stessa. L’immaginario collettivo è spinto a credere all’ennesima puntata di uno scontro tra civiltà che in realtà non esiste. Sul terreno della geopolitica le cose sono molto più concrete: contese, accordi e crisi si mescolano, intrecciandosi e contaminandosi reciprocamente. In tale defatigante intreccio contano anche i dettagli che sembrano irrilevanti. Gli attori sono numerosi e si rischia sempre l’effetto confusione.
Il conflitto dimenticato in Siria
È bene iniziare dalla grande guerra di Siria che non smette di terminare e provoca una lunghissima coda di tragedie collaterali. Ormai si tratta quasi di un conflitto dimenticato: nessuno segue più e l’interesse dei media è divenuto sporadico. Settimane fa a Damasco è stato ucciso da un’autobomba il Gran muftì, la massima autorità religiosa ufficiale del paese.
Il muftì Adnan Afiouni era stato nominato dal governo di Assad come una specie di garante istituzionale: il suo ufficio verifica i sermoni e nomina gli imam delle moschee. Il religioso siriano assassinato era anche a capo di un ente governativo per il contrasto al jihadismo. Anche se il governo ha vinto sul campo, l’attentato dimostra che i nemici di Assad rimangono vitali: se possono colpire a Damasco tanto più lo possono fare in Europa. D’altronde a oriente di Hama da varie settimane l’esercito lealista combatte duramente contro i resti dell’Isis che non si danno per vinti.
Gli scontri stanno provocando decine di morti a settimana, a cui si aggiungono i combattimenti nella provincia di Idlib dove sotto l’ombrello turco si sono rifugiati i sopravvissuti dei movimenti radicali più vicini ad al Qaeda. I russi hanno interrotto i pattugliamenti congiunti con i turchi mentre i loro bombardieri continuano a intervenire in appoggio alle truppe di Assad.
Frizioni armate continuano a verificarsi anche alla frontiera tra Turchia e Siria dove sono stanziati i combattenti curdi: Ankara non rinuncia a fare pressione sulle posizioni dell’Ygp, il movimento dei curdi siriani. Dal canto loro questi ultimi hanno recentemente rilasciato dal campo di al-Hol centinaia di siriani sospettati di appartenere all’Isis, in particolare donne e figli di ex combattenti. La quantità di internati di questo tipo è troppo alta perché le indebolite strutture del Rojava possano mantenerli tutti mentre vanno a rilento le trattative con gli stati occidentali affinché si riprendano i loro concittadini. La Siria rimane nel caos e la ricostruzione delle sue città si allontana.
Un nuovo accordo a Beirut
Recentemente nel vicino Libano si è accesa qualche luce di speranza. Saad Hariri è stato reincaricato dal presidente Aoun di formare un governo. Falliti gli ultimi tentativi, la decisione di rivolgersi ancora all’ex premier (caduto in disgrazia presso i suoi sostenitori sauditi e non certamente un amico di Hezbollah) fa pensare che alla fine si sia trovato un nuovo accordo tra le varie fazioni libanesi anche se ancora non se ne conoscono i dettagli.
La notizia più rilevante è la trattativa sui confini marittimi tra Beirut e Gerusalemme. L’onda degli Accordi di Abramo lambisce anche questa parte del Levante in forte sofferenza: la mediazione americana sta riuscendo a sbloccare un vecchio contenzioso che impediva il sereno sfruttamento dei previsti giacimenti davanti alle coste dei due paesi. Tra l’altro, dopo il default, Beirut ha un disperato bisogno di nuovi proventi e introiti.
La disputa non verte sulla zona economica esclusiva (Zee) come quella tra Grecia e Turchia nel Mediterraneo orientale, ma proprio (ed è molto più delicato) sulla demarcazione delle acque territoriali. In altre parole si tratta di una disputa sui confini, anche se limitata a circa 900 chilometri quadrati. Si ritiene che quelle acque siano molto promettenti dal punto di vista delle risorse energetiche.
In passato si era tentato senza successo ma ora il ruolo degli Stati Uniti si è fatto più pressante e le aspettative sono positive. Risolto questo, tra i due paesi resterebbe solo il contenzioso terrestre sulle Fattorie di Sheeba, 24 chilometri quadrati appena. Se tutto si risolve, Israele e Libano potrebbero pensare addirittura a un trattato di pace.
I pensieri di Erdogan
Nello scenario geopolitico generale, un accordo Libano-Israele peserebbe molto andando innanzi tutto a discapito della Turchia. Sarebbe un modo per rafforzare l’asse energetico orientale che da Israele raggiunge l’Italia, passando per Egitto, Libano, Cipro e Grecia. Ankara verrebbe ancor più emarginata dopo essere stata già esclusa dall’accordo East Mediterranean gas forum (Emgf), un’organizzazione regionale formata da Egitto, Cipro, Grecia, Israele, Italia, Giordania e Autorità nazionale palestinese. Molto dell’attuale nervosismo turco promana da tali decisioni.
È il Cairo a insistere in favore di tale linea aggressiva anti-Ankara, sia per reagire alle disorientanti iniziative turche in Libia e attorno a Cipro, sia per rafforzarsi all’interno dell’universo sunnita nei confronti di un temibile concorrente. Da quando Erdogan ha rotto con Israele, i ruoli si sono rovesciati e gli unici ad avvantaggiarsene davvero sono stati i sauditi.
L’astio tra i due leader – Erdogan e al Sisi – viene da lontano: al Cairo non dimenticano quanto i turchi abbiano sostenuto fino all’ultimo i Fratelli Musulmani egiziani dell’ex presidente Morsi, ora deceduto. Peggio ancora continuano a farlo con la branca libica dei Fratelli. Nella crisi bellica tra armeni e azeri, l’Egitto sostiene ufficialmente Erevan. I turchi si stanno facendo altri nemici attorno alle frontiere, anche se erano già circondati da una generalizzata diffidenza.
Le forze che stanno ridisegnando confini e influenze nel Mediterraneo orientale sono complesse: si sono rimesse in movimento grazie al doppio disgelo dovuto alla fine della guerra fredda e delle guerre arabo-israeliane. La Russia ha cercato di mantenere il suo ascendente su Damasco, buttandosi a caro prezzo nell’avventura della guerra di Siria: è stato lo scotto da pagare per conservare un attracco mediterraneo per la sua flotta.
La Turchia, dopo l’esclusione de facto dall’Unione europea, sta cercando di occupare i vuoti strategici che riesce: un modo per ricostruirsi un profilo internazionale (non si accontenta di fare il partner europeo di serie B) anche se affrettato. L’Iran ha dovuto partecipare alla guerra di Siria a supporto del suo unico alleato, uscendone vincitore ma esausto: la fine dell’accordo sul nucleare e le sanzioni indeboliscono ancor più Teheran pur lasciandole il ruolo di principale antagonista.
Conseguenze lontane
Con l’aiuto degli Stati Uniti, Israele sta cancellando decenni di pericoli, guerre e tensioni, sfruttando la sua assoluta supremazia tecnologica ed economica, oltre che militare. Dentro un mondo arabo senza più guide, i sauditi hanno scelto di guidare tutti verso l’appeasement che passa per il riconoscimento di Israele e la chiusura della questione palestinese. Purtuttavia Riad mantiene il controllo dell’universo salafita-wahabita come arma di influenza globale all’interno della umma musulmana. Costretti a rispondere a crescenti esigenze sociali e demografiche, gli egiziani si sono accodati, concentrandosi sulla ricerca di nuove fonti energetiche.
Le guerre periferiche di Libia, Yemen e del Nagorno Karabakh subiscono i contraccolpi di tali equilibri. Si tratta di driver geopolitici potenti e difficili da condizionare: ogni protagonista vi vede collegato il proprio futuro e talvolta la propria sopravvivenza. Pur con interessi contrapposti, gli stessi Stati Uniti e Cina si muovono nel Mediterraneo orientale con oculata prudenza. Pechino cerca di trovare (difficoltosamente) i passaggi per la sua Belt and road intiative economica e commerciale; Washington fa leva sui suoi alleati storici – Israele e Arabia Saudita – i quali tuttavia non si lasciano più comandare facilmente.
In tale contesto è evidente che il lamento nostrano «l’Europa cosa fa?» non tiene conto della dura realtà: il mondo di prima non c’è più e oggi ogni influenza si costruisce nel tempo e si paga a caro prezzo. In tale nuovo “grande gioco” orientale non sono ammessi nessun velleitarismo, nessuno sfoggio di potenza né alcuna forma di improvvisazione. Ci vogliono nervi saldi, continuità di azione e alleanze a geometria variabile per ogni obiettivo.
La posizione dell’Italia è delicata ma ha a disposizione alcune carte. Alcune sono quelle tradizionali del nostro carattere mediativo: manteniamo relazioni corrette con Ankara e Mosca, il guaio è che ne abbiamo di cattive con il Cairo, pur partecipando alla costruzione dell’accordo energetico orientale che esclude Ankara e che vede l’Egitto protagonista.
Nel Golfo i nostri rapporti hanno subito i contraccolpi di un certo equilibrismo in bilico tra Qatar ed Emirati, con l’aggravante di operazioni economiche andate male o mai decollate. Gli scambi italiani con Israele in materia di innovazione tecnologica sono crescenti anche se ancora non al livello desiderato. Allo stesso tempo abbiamo subìto perdite in termini di mercato a causa delle crisi siriana e libanese. Nel confronto marittimo tra Francia e Turchia di fronte alle isole greche e a Cipro, Roma ha tentato di giocare una partita conciliativa a sostegno della mediazione tedesca che, però, sta subendo una battuta di arresto.
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