La missione della Santa Sede per aprire un negoziato smentita da Kiev e poi anche da Mosca. Gli sforzi del papa per avviare trattative di pace fino ad ora non hanno prodotto risultati. Funziona la diplomazia umanitaria; il problema rappresentato da Kirill
La smentita che arriva da Kiev è di quelle che pesano: il governo dell’Ucraina non è a conoscenza di una missione di pace promossa dalla Santa Sede per fermare il conflitto in corso e, del resto, «il presidente Zelensky non ha acconsentito a tali discussioni per conto dell'Ucraina». Papa Francesco, durante il viaggio di ritorno da Budapest, aveva infatti fatto sapere che il Vaticano stava provando a giocare le sue carte sullo scacchiere della diplomazia internazionale: «anche adesso – aveva detto il pontefice - è in corso una missione, ma ancora non è pubblica. Vediamo come. Quando sarà pubblica la dirò».
Affermazione forse avventata, comunque ricevuta con stizza dalle autorità ucraine che hanno fatto conoscere il loro pensiero in merito attraverso il network statunitense della Cnn, e in casi come questo anche il canale scelto per rispondere ha il suo significato. A seguire, anche Mosca ha fatto sapere di non essere a conoscenza di acun tipo di intervento della diplomazia del Papa; questa volta a parlare era il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov tramite la Tass, l’agenzia di stampa ufficiale. Le parole del Pontefice restano dunque avvvolte dal dubbio e dall’incertezza, non certo lo scenario migliore per un’efficace azione diplomatica.
I sospetti di Kiev
Del resto, fin dall’inizio dell’invasione, Francesco ha cercato in tutti i modi di esercitare un ruolo di mediazione fra Mosca e Kiev, il Vaticano ha provato ripetutamente, anche attraverso l’opera di un diplomatico abile come il Segretario di Stato Pietro Parolin, ad aprire una strada al negoziato, a un cessate il fuoco o a una tregua che consentisse ai rappresentanti russi e ucraini di sedersi intorno a un tavolo o di avviare un dialogo almeno a distanza.
Tuttavia, è un fatto che questa strategia fino ad ora non ha portato risultati concreti. Il governo di Kiev ha sempre guardato con una certa dose di sospetto all’attivismo vaticano ritenendo che la Santa Sede fosse fin troppo equidistante nel valutare le regioni dell’aggressore e quelle dell’aggredito, una valutazione ripetuta anche in tempi recenti. Mosca, da parte sua, ha un po’ giocato a rimpiattino con il Vaticano, alternando disponibilità e chiusure improvvise e alzando i toni, specularmente, appena da Roma arrivava una parola di condanna più o meno esplicita della condotta russa nella guerra.
Lo scorso dicembre lo stesso Parolin, spiegando come il Vaticano stessa facendo ogni sforzo per fermare il conflitto, ammetteva che non c’erano le condizioni per aprire un dialogo, quindi concludeva: «Noi stiamo tentando di portare avanti iniziative che possano portare alla pace, ma sono sempre affidate alla volontà delle parti di mettere fine. Senza quella, non si riuscirà a costruire, nonostante gli sforzi e tentativi». Naturalmente in una crisi di questa portata che ha risvolti economici e geopolitici rilevanti, una svolta è sempre possibile, tuttavia lo stallo diplomatico è evidente.
Incertezze vaticane
A influire negativamente sul ruolo della Chiesa di Roma, almeno nella prima fase del conflitto, è stata la difficoltà con la quale il papa ha riconosciuto le responsabilità di Mosca nell’apertura delle ostilità; una posizione che, successivamente, è stata modificata affermando, secondo determinati criteri etici e di proporzionalità, il diritto all’autodifesa di fronte all’invasione e il principio di una pace che fosse fondata sul rispetto del diritto internazionale. Ancora, costantemente, la voce del papa si è levata per denunciare il rischio di un’escalation nucleare e il problema legato alle risorse destinate agli armamenti moltiplicate da ogni conflitto, compreso quello ucraino.
Su questo fronte, gli interventi del pontefice hanno probabilmente contribuito a sensibilizzare le opinioni pubbliche di vari paesi circa il rischio di un ricorso agli arsenali atomici che, per quanto solo minacciato, non era mai stato tanto vicino. Nel frattempo, va ricordato, da parte della Santa Sede così come dalle strutture cattoliche impegnate nei Paesi confinanti con l’Ucraina e nello stesso territorio ucraino, è stato svolto un ruolo umanitario importante, sia attraverso gli aiuti alla popolazione civile residente che ai milioni di profughi fuggiti nel resto d’Europa per scampare alle bombe.
La mediazione umanitaria
Non solo: il Vaticano è riuscito a mediare per far liberare diversi prigionieri ucraini detenuti dai russi e, da ultimo, sta provando a far tornare in Ucraina i bambini sequestrati e portati in Russia. In tal senso, il primo ministro ucraino, Denys Shmyhal, in visita dal papa nei giorni scorsi, ha chiesto l’aiuto del papa. Francesco, sempre nel viaggio di ritorno dalla capitale ungherese, ha detto in merito che la cosa è possibile «perché la Santa Sede ha fatto da intermediario in alcune delle situazioni di scambio di prigionieri, e tramite l’ambasciata questa è andata bene, penso che può andare bene anche quest’altra (i bambini, ndr)».
«È un problema di umanità - ha aggiunto - prima che un problema di un bottino di guerra o di deportazione. Tutti i gesti umani aiutano, invece i gesti di crudeltà non aiutano. Dobbiamo fare tutto quello che è umanamente possibile». Questa vicenda spiega che, in ogni caso, dei canali fra Santa Sede Kiev e Mosca, sono aperti, ma la questione sembra essere limitata all’aspetto umanitario.
Il problema Kirill
Anche perché, una via di comunicazione con Mosca per il Vaticano, poteva essere rappresentata dalla relazione con il patriarcato ortodosso di Kiev; ma lo stesso Kirill, cercando di dare una copertura ideologica al Cremlino, definendo cioè l’invasione dell’Ucraina come una sorta di guerra santa contro i valori decadenti dell’Occidente, ha perso ogni credibilità tanto che lo stesso Francesco ha dovuto ricordargli che i leader religiosi non devono comportarsi come «chierici di Stato». Né può essere tralasciato che il conflitto ucraino ha avuto pesanti conseguenze sul fronte religioso dividendo il mondo ortodosso in Ucraina e ampliando l’isolamento di Mosca.
Sembra, dunque, che l’ostpolitik tipica della guerra fredda, non possa più essere il metodo della diplomazia nell’attuale crisi, neanche di quella vaticana. in tal senso fa testo anche il recente viaggio a Budapest di Francesco, utilizzato strumentalmente dal governo di Viktor Orban, il leader europeo più vicino a Vladimir Putin, soprattutto per cercare di riabilitare la propria immagine internazionale piuttosto che per fare da sponda politica al tentativo del Vaticano di aprire un negoziato fr Mosca e Kiev.
© Riproduzione riservata