- L’improvviso riconoscimento da parte di Vladimir Putin delle due repubbliche separatiste popolari di Donetsk (Dnr) e Lugansk (Lnr), nella regione del Donbass, ha trasformato in guerra il lungo braccio ferro che oppone da mesi Russia e occidente.
- Il “Donbass” – una sigla che sta per “bacino minerario del Donets” – è stato per la Russia ciò che la Ruhr è stata per la Germania: il centro della rivoluzione industriale.
- Fino a un mese fa lo scopo dell’Ucraina non era tanto la riconquista dei territori ribelli, quanto evitare l’implosione del paese dando un terribile esempio che scoraggiasse altre velleità secessionistiche.
L’improvviso riconoscimento da parte di Vladimir Putin delle due repubbliche separatiste popolari di Donetsk (Dnr) e Lugansk (Lnr), nella regione del Donbass, ha trasformato in guerra il lungo braccio ferro che oppone da mesi Russia e occidente, con l’Ucraina in mezzo, e al lettore è utile una spiegazione del contesto geografico e politico in cui è maturata.
Il “Donbass” – una sigla che sta per “bacino minerario del Donets” – è stato per la Russia ciò che la Ruhr è stata per la Germania: il centro della rivoluzione industriale.
Miniere di carbone e industria siderurgica hanno attirato dal Diciannovesimo secolo immigrati da tutto l’Impero, che usavano il russo come lingua franca. Si è creato così un posto a sé stante, con una sua identità specifica, non etnica. Il Donbass è stato la roccaforte di molti politici sovietici, e, in tempi più moderni, degli oligarchi che hanno condizionato, e condizionano, la vita politica ucraina – come il re dell’acciaio Rinat Akhmetov.
Nella storia della giovane Repubblica Ucraina (nata nel 1991 dalla fine dell’Urss), un luogo attraversato da pulsioni autonomiste, russofono e russofilo. Pulsioni che esplodono in aperto separatismo nel 2014, dopo l’annessione alla Russia della Crimea, con la proclamazione nelle province orientali di Donetsk e Lugansk di due repubbliche popolari.
Le forze ribelli
Una lunga e crudele guerra ha opposto le forze ribelli, appoggiate neanche tanto nascostamente dai russi, e l’esercito ucraino, che qui ha imparato a combattere sul serio. Divenuta poi focolaio dello scontro più ampio in corso in questo momento. Tredicimila vittime totali del conflitto, compresi civili e vittime collaterali – come il fotografo Andrea Rocchelli, e i 300 ignari passeggeri di un jet malese abbattuto per sbaglio.
Fino a un mese fa lo scopo dell’Ucraina non era tanto la riconquista dei territori ribelli, quanto evitare l’implosione del paese dando un terribile esempio che scoraggiasse altre velleità secessionistiche. Obiettivo raggiunto: il prezzo è stato l’alienazione completa degli abitanti della regione, ormai ostili al governo centrale.
Costretta, per ottenere un cessate il fuoco, a firmare il protocollo di Minsk II (2015), insieme a Germania, Francia e Russia, l’Ucraina non l’ha mai completamente attuato, specie là ove prevedeva la reintegrazione nel paese dei territori secessionisti con lo status di repubbliche autonome, con il potere di condizionare le scelte di politica estera del paese: in pratica un cavallo di Troia della Russia.
Ai russi ugualmente lo status quo conveniva perché impedisce all’Ucraina di accedere alla Nato, che non accetta paesi con contenziosi territoriali.
Il plateale riconoscimento delle sedicenti Repubbliche del Donbass ha sancito una situazione di fatto consolidata negli anni: la Russia aveva generosamente distribuito passaporti e integrato la loro economia nella sua. I russi erano già lì, solo ora sono a volto scoperto, e su una base legale (per loro).
Le due repubbliche sono entità artificiali (al contrario della Repubblica di Crimea) senza confini predefiniti e, prima dell’invasione russa dell’intero paese, controllavano appena il 30 per cento delle province di Lugansk e Donetsk.
Resta da capire perché Putin, finora apparentemente vincente nel complesso e astuto gioco diplomatico, abbia scelto la guerra. Forse una dimostrazione di forza gli consente di puntellare il fronte interno e salvare il proprio ruolo nella storia russa.
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