Il Ruanda si è modernizzato ed è diventato influente. Le sue truppe mantengono la pace in molti paesi africani. Solo resta aperta la ferita del Kivu
Kwibuka 30: ricordare 30 anni dopo in lingua kyniarwandese. È la commemorazione trent’anni dopo il genocidio dei tutsi in Ruanda alla quale hanno partecipato vari capi di stato e che coinvolge tutta la popolazione. I ricordi sono ancora intensi e dolorosi e tanti superstiti e carnefici sono ancora vivi. Il genocidio del 1994 resterà profondamente marcato nella storia del Ruanda e dell’Africa tutta, anche perché si svolse essenzialmente all’arma bianca: non ci fu bisogno di comprare armi prodotte all’estero per commetterlo.
Per comprenderlo bisogna scendere nella storia delle paure, dei pregiudizi e del razzismo etnico della regione anche se, com’è noto, si tratta di malattie dell’anima che non riguardano solo quel paese, o la regione dei Grandi Laghi e nemmeno soltanto l’Africa. A Parigi l’ennesimo rapporto dell’ennesima commissione denuncia il fatto che la Francia «poteva fermare» il massacro in ogni momento.
Ma già si sapeva dalle memorie di uno dei protagonisti: il generale canadese Roméo Dallaire che comandava i caschi blu. Nel suo libro Ho stretto la mano al diavolo (colpevolmente mai tradotto in italiano) l’ufficiale spiega come il genocidio potesse essere fermato in ogni momento, in ognuno dei 100 giorni nei quali durò.
Nessuno ha detto «no»
Infatti si trattava di un’operazione programmata i cui promotori stavano attenti a osservare le reazioni della comunità internazionale, pronti a fermare l’ingranaggio se solo ci fosse stata opposizione. Ma non ci fu, ed è una colpa che non riguarda solo la Francia, ma anche altri paesi occidentali, tra i quali il nostro, che evacuò subito il contingente che pure era atterrato a Kigali. Gli stessi caschi blu avrebbero potuto intervenire – come chiese ripetutamente Dallaire – ma si scontrarono con il rifiuto di Kofi Annan, che gli fu successivamente rimproverato a lungo e di cui si scusò. In Ruanda tuttavia in questi 30 anni si sono costruiti una nuova storia e un nuovo paese.
Pur facendo memoria, i ruandesi non si piangono addosso e hanno fatto del Ruanda una piccola potenza tecnologica con crescente influenza continentale e internazionale. La reputazione del paese è alta e lo si vede dai suoi impegni all’estero con la partecipazione a varie missioni Onu in Africa come quella in Sudan e in Sud Sudan ma soprattutto in Repubblica Centrafricana (Minusca) con quasi 3000 caschi blu.
La considerazione delle sue truppe è tale che il Ruanda ha siglato accordi bilaterali con altri stati per intervenire ad esempio in nord Mozambico nella repressione del jihadismo, o in Benin e Congo Brazzaville. Quando non invia truppe ufficiali c’è anche la possibilità di rivolgersi al paese per i suoi contractor molto apprezzati, come quelli di Crystal Ventures e Macefield Ventures, composti da ex militari ben addestrati.
Attualmente sono dispiegati in Zambia, Zimbabwe e ancora in Mozambico. La linee aeree ruandesi sono collegate con una ventina di aeroporti africani, oltre che altri collegamenti negli Usa, in Europa, Medio Oriente, India e Cina: una rete importante per un paese tutto sommato piccolo.
Un paese trasformato
Mediante l’innovazione tecnologica il Ruanda si è molto modernizzato ed è stato creato un proprio settore produttivo di grande interesse oltre che vari centri di ricerca nelle università. La crescita è stabile da trent’anni.
Restano aperte le ferite regionali, frutti amari delle guerre degli anni Novanta seguite al genocidio. C’è il contenzioso sulle frontiere con l’Uganda e le cattive relazioni con il gemello Burundi con il quale ora le frontiere sono chiuse. Ma soprattutto la crisi più grave è quella con la Repubblica democratica del Congo per il controllo del Kivu.
Kigali considera quella regione (oltretutto ricca in minerali) come un necessario cuscinetto ammortizzatore utile alla propria sicurezza. I due Kivu del nord e del sud hanno una storia molto particolare e una composizione etnica pluralista e complessa, anche per la presenza di popoli e lignaggi apparentati con i tutsi ruandesi (come i banyamulenge). Di conseguenza fin dal genocidio è in corso una competizione tra Kigali e Kinshasa per chi ha il dominio sull’area.
Mentre i ruandesi accusano i congolesi di ospitare e proteggere gli ex hutu genocidari, la RDC denuncia che il Ruanda fomenta e arma continue guerriglie, come l’M23 ad esempio. Si tratta della stessa area dove trovò la morte il nostro ambasciatore Luca Attanasio. Nel Kivu la guerra non è mai terminata anzi è stata aggravata dall’intreccio con altri conflitti locali dovuti per lo più alla contesa sulla proprietà della terra e accresciuti dallo spostamento forzato delle popolazioni.
Oggi in quella zona vi sono circa 200 milizie di tutti i generi, alcune con agende regionali, altre con ambizioni più vaste. Il paradosso è anche iscritto nella geografia: ufficialmente congolese, il Kivu è però molto vicino a Kigali e lontanissimo da Kinshasa dove le sensibilità per quella terra e per le sue sofferenze è quasi inesistente.
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