Si sono scritte decine di articoli sull’impopolarità dei due candidati presidente e sulla voglia dell’elettorato di votare qualcos’altro. Quando però le alternative si presentano, non convincono
Dopo il risultato delle primarie repubblicane in New Hampshire, dove l’ex ambasciatrice presso le Nazioni unite Nikki Haley ha perso per dieci punti percentuali nei confronti di Donald Trump, difficilmente i candidati dei principali partiti saranno diversi rispetto alle presidenziali del 2020: Trump per il partito repubblicano, Joe Biden per i democratici.
Si sono scritti decine di articoli sulla stanchezza dell’elettorato, sulla voglia di qualche novità al vertice. Eppure, l’alternativa ai due vetusti candidati fatica a emergere. E non da oggi. A ben vedere è dalle elezioni del 2016 che i due principali partiti hanno deciso di affidarsi all’usato sicuro.
Se Hillary Clinton era una veterana della politica, prima come first lady del marito Bill, poi come senatrice dello stato di New York e infine come segretario di Stato di Barack Obama, anche il suo rivale Donald Trump, pur non avendo esperienze elettorali, era tutt’altro che uno sconosciuto.
Tra il 2004 e il 2016, grazie al talent show The Apprentice, era diventato forse il più famoso influencer di destra del paese. Tanto che nel 2012 il candidato presidente dei repubblicani Mitt Romney, aveva cercato il suo sostegno (poi è diventato un suo feroce critico).
Le alternative
L’andazzo di affidarsi sempre con regolarità a figure arcinote è poi continuato fino a oggi. Eppure, prima della stagione delle primarie, nel campo repubblicano, c’era un’ampia disponibilità di alternative a Trump. Una decina circa di aspiranti inquilini della Casa Bianca tra deputati, senatori e governatori, persone di solida esperienza politica, molto più di quella che lo stesso tycoon aveva nel 2016.
La stessa Nikki Haley può contare su un curriculum di tutto rispetto: governatrice per due mandati del suo stato, il South Carolina e poi rappresentante americana all’assemblea dell’Onu per due anni. Nel tempo ha saputo costruirsi un profilo istituzionale molto distante dal trumpismo con l’obiettivo di costruire un nuovo partito repubblicano dai toni più moderati e più aperto e accogliente verso le minoranze etniche e i diritti riproduttivi.
Dal lato dem, invece, le due possibili alternative a Biden non risultano molto gradite all’elettorato. Né la vicepresidente Kamala Harris, che ha al suo attivo anche l’esperienza di senatrice e di procuratrice generale della California, né Gavin Newsom, governatore del Golden State ed ex sindaco di San Francisco, hanno mai pensato di sfidare il presidente in carica, diversamente da quanto fatto nel 1980 dall’allora senatore Ted Kennedy nei confronti di Jimmy Carter.
Dean Phillips
C’è però un candidato che ci sta ancora provando: il deputato del Minnesota Dean Phillips. È stato eletto per la prima volta nel 2018, in un distretto che era repubblicano sin dal 1961. E durante la sua permanenza al Congresso è stato un fedelissimo alleato del presidente, votando per il 100 per cento dei provvedimenti provenienti dalla Casa Bianca, ma con una posizione più centrista.
Non solo, Phillips, classe 1969, ha posto sin da subito il tema dell’età del presidente, senza per questo voler sminuire il «lavoro straordinario» svolto in questi anni. A un’analisi superficiale sia Haley sia Phillips avevano le carte in regola per il lavoro a cui si sono candidati, ma hanno una cosa in comune: la loro corsa si è molto affidata a finanziamenti provenienti da patrimoni miliardari.
Nel caso di Phillips, che possiede un totale stimato di 77 milioni di dollari, molti dei soldi investiti sono anche suoi, ma non conta più di tanto. Ciò che conta è che, come registra una ricerca della joint venture Vox & Data for Progress il 37 per cento degli americani ha una cattiva opinione dei super ricchi, un dato che in passato sarebbe stato impensabile.
A favorire questo cambio di opinione è stata la crescita esponenziale della ricchezza dei magnati della Silicon Valley. Figure come Jeff Bezos ed Elon Musk hanno indubbiamente influito sulle posizioni dell’opinione pubblica, anche in campo repubblicano, come testimonia la retorica trumpiana contro il patron di Tesla.
In sintesi i due candidati arrivati secondi in New Hampshire (Phillips è stato battuto da Biden tramite il voto write-in: gli elettori hanno scritto il nome del presidente in carica anche se non era sulla scheda del New Hampshire a causa di una controversia dei dem locali con l’organizzazione nazionale del partito) sono risultati senz’altro razionali e preparati, ma poco sinceri nei loro intendimenti.
Sia Trump sia Biden hanno in comune una percezione sostanzialmente positiva da parte della loro base che vota alle primarie, nonostante la loro impopolarità presso l’elettorato generale. E quindi, per il momento, i votanti dovranno scegliere a novembre tra loro due. Si può dunque sorridere pensando a quegli analisti che nel 1980 criticavano il sessantanovenne Ronald Reagan come troppo vecchio per la Casa Bianca. Anche allora però, gli elettori non hanno dato retta ai giornali e garantirono una vittoria netta dell’ex attore hollywoodiano.
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