Quando nel giugno 2022 è stata emessa la sentenza Dobbs v. Jackson, tutto sembrava fuorché un trionfo dei progressisti dem. Anzi, il verdetto scritto dal giudice Samuel Alito a nome suo e di altri cinque colleghi conservatori che ribaltava il precedente di un’altra opinione giudiziaria, la Roe v. Wade del 1973, era visto come il punto di arrivo di una lunga battaglia condotta dal movimento conservatore per cancellare il diritto federale all’aborto istituito quasi cinquant’anni prima. E i repubblicani avevano esultato in modo piuttosto accentuato, rimarcando che «aveva vinto la vita».

Due anni più tardi possiamo dire che la cancellazione di quello che era stato un diritto acquisito per decenni ha dato nuova linfa a un partito democratico che stava diventando sempre più impopolare a causa dell’aumento dei prezzi legato all’inflazione e dell’impopolarità crescente di un presidente poco carismatico e “vecchio”.

La riscossa

Un po’ sorpresa, da quella sentenza, è partita una silenziosa mobilitazione delle donne dem che ha condotto alla vittoria di un referendum nello stato ultraconservatore del Kansas (che introduceva in costituzione proprio il diritto all’interruzione di gravidanza) mentre, a novembre di quell’anno, i dem sono riusciti a smentire le previsioni fosche di una disfatta alle elezioni di metà mandato per il Congresso.

Alla Camera hanno perso solo qualche seggio e la maggioranza repubblicana si è rivelata ingovernabile e in preda ai conflitti interni, mentre al Senato i dem sono persino riusciti a conquistare un seggio aggiuntivo.

Dopo tutto questo tempo, il tema continua a colpire nel segno. I repubblicani mantengono una linea antiabortista, ma Donald Trump ha rimarcato la volontà di trovare una nuova «via di compromesso» non meglio definita per accontentare tutti.

Gli elettori, però, non vogliono compromessi, vogliono che il diritto torni a esserci. Come prima. Magari per far sì, come dicevano i dem ai tempi di Bill Clinton, che l’aborto sia «sicuro, legale e raro».

Anche tentativi di limitarlo fatti da esponenti moderati come il governatore della Virginia Glenn Youngkin, che ha proposto un divieto totale dopo le quindici settimane di gravidanza, sono stati puniti dagli elettori: lo scorso novembre 2023 i repubblicani hanno perso la maggioranza nell’assemblea statale.

La campagna elettorale

Intanto lo staff della campagna democratica per il Congresso ha deciso di prendere di mira cinque repubblicani eletti in seggi in bilico: Michelle Steel della California, Nick LaLota e Brandon Williams di New York, Lori Chavez-DeRemer dell’Oregon e Scott Perry della Pennsylvania. Lo strumento è un manifesto che ricorda le frasi pronunciate all’indomani della sentenza Dobbs, in genere espressioni di pura esultanza.

Dalle parti del quartier generale repubblicano si fanno spallucce. Un portavoce della campagna ha minimizzato la cosa, affermando che in realtà queste sono iniziative spot e che a parlare sono i soldi destinati alle pubblicità televisive, che nei distretti in questione sono molto pochi.

E anche i politici di cui sopra reagiscono in modo diverso: se Perry ha rilanciato, riaffermando di condividere quanto detto allora, LaLota ricorda come sia contrario a un divieto nazionale d’aborto come proposto da esponenti conservatori come l’ex vicepresidente Mike Pence, rammentando che la sua posizione è simile a quella di un dem centrista clintoniano. Altri, come Steel, cercano di aggirare la cosa dicendo che gli impegni nei confronti degli elettori sono altri e lei ha lavorato per aiutare le famiglie ad arrivare a fine mese.

Non c’è dubbio però che la questione è ancora bruciante e rischia di trasformarsi in molto di più che in una frattura tattica all’interno del campo conservatore tra chi vuole smorzare i toni e chi invece vuole rilanciare attaccando anche la fecondazione in vitro.

Per i repubblicani la sentenza Dobbs è sembrata un punto d’arrivo molto appagante, che ha consentito di proibire l’interruzione di gravidanza in tredici stati tra cui il Texas che è il secondo più popoloso d’America. Mentre i progressisti lo usano come nuova linfa per andare verso l’obiettivo principale: cambiare la maggioranza della Corte suprema, attraverso una riforma che abolisca il mandato a vita dei giudici per ricreare una maggioranza progressista o almeno un maggiore equilibrio.

Un obiettivo che al momento appare remoto e difficile da attuare, perché richiede una revisione costituzionale che avrebbe bisogno del consenso di un pezzo di partito repubblicano che al momento non c’è. Così la questione viene usata nel modo più facile: un martello contro i repubblicani, dipinti come integralisti religiosi anche quando non lo sono. E la tattica al momento sta funzionando bene.

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