Le democrazie non muoiono. Le democrazie vengono uccise. Gli assassini delle democrazie sono le élite. A seconda dei tempi e dei luoghi possono essere prevalentemente le élite politiche, militari economiche, religiose, persino culturali.
Qualche volta, quelle élite iniziano a indebolire le democrazie violandone alcuni principi, se volete, promesse, fondamentali: l’eguaglianza, mai di risultati, ma quella di fronte alla legge; il pluralismo di diritti e di opportunità; la libera competizione elettorale e il rispetto dei suoi esiti; la rinuncia alla violenza e il riconoscimento che il monopolio dell’uso della forza spetta, senza se senza ma, allo stato le cui élite agiscono in trasparenza; l’educazione politica e civile della cittadinanza.
Democrazie difettose
Raffinati indicatori dello stato della democrazia nel mondo hanno colto da tempo il declino di molti degli elementi citati sopra anche negli Stati Uniti d’America che, la classifica dell’Economist Intelligence Unit colloca fra le democrazie difettose al 29esimo posto (Italia 31esima).
L’attentato a Donald Trump ha sollecitato molti commentatori a ricordare che alcuni presidenti e qualche candidato sono stati uccisi. Sarebbe forse stato opportuno fare anche riferimento alle numerose e frequenti stragi di civili, a cominciare da quelle nelle scuole.
La frase «violence is as American as apple pie» pronunciata più di cinquant’anni fa da un leader delle Pantere Nere non trova smentite. Il movimento Black Lives Matter serve a ricordare a tutti quanto razzismo strisci tuttora nella società americana.
Il 6 gennaio 2021 l’assalto al Campidoglio di Washington ha rivelato che l’accettazione della sconfitta elettorale non è più un principio cardine condiviso dalla élite politica, economica, culturale repubblicana.
Sullo sfondo si aggirano la cultura della cancellazione (della storia e della memoria dalle quali più non si impara) e il politicamente corretto (perniciosa manifestazione del conformismo nella società di massa denunciato da Tocqueville). Entrambi contribuiscono a istituzionalizzare discriminazioni e barriere cognitive. Non è guerra di culture, ma di pregiudizi e di incultura/e.
La Corte suprema
Partecipante diretta e potente, in questa guerra, ancorché a lungo ritenuta al di sopra e orientato al futuro, la Corte suprema, con una solida maggioranza tecnicamente reazionaria destinata a durare per almeno una intera generazione, si è schierata a favore, quando conta, delle modalità con le quali il presidente Trump (che ha nominato tre di loro) interpreta e ha esercitato i suoi poteri.
La Corte sta minando il sacrosanto principio liberale della separazione dei poteri e facendo venire meno proprio il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge nel momento in cui la legge e la Costituzione sono interpretate in chiave originalista con riferimento alle (presunte) intenzioni dei costituenti.
Naturalmente, non sono mancate le reazioni dei democratici e dei progressisti Usa a tutti questi sviluppi e ai casi più controversi. Però, non ci sono stati coordinamenti efficaci e, spesso, i democratici hanno peccato di (eccesso di) permissivismo nel condonare dichiarazioni e comportamenti offensivi e illegali che si sono moltiplicati e hanno prosperato.
Con fior fiore di studiosi condivido il postulato che una, tutt’altro che l’unica, virtù della democrazia consiste nell’apprendimento collettivo. Sono le donne e gli uomini, prima e più fra le élite che nel popolo, che apprendono, reagiscono, cambiano, formulano nuove idee, riequilibrano regimi sull’orlo del disastro.
Chi, per arroganza, ambizione, connivenza, ignoranza, impedisce la circolazione delle élite si rende responsabile della morte eventuale della democrazia. Sono pallidi e esangui i segnali che consentano di pensare che nelle élite d/Democratiche Usa questa consapevolezza sia già sufficientemente diffusa. Si sta facendo tardi.
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