I cristiani costituiscono una piccola minoranza in Terra santa. Per la verità lo sono sempre stati, solo che oggi la questione è sempre più evidente anche dal punto di vista demografico e riveste aspetti drammatici se si osservano le cose tenendo conto del conflitto in corso.

Il rischio reale, infatti, è che i “luoghi santi” in Israele e nei territori palestinesi, restino privi del tutto di comunità cristiane; secondo l’ufficio statistico di Israele, la popolazione di fede cristiana nel Paese ebraico toccava, alla vigilia del Natale 2023, circa 188mila unità (si consideri inoltre che sono divisi fra diverse confessioni); i cristiani in Israele rappresentano circa l’1,9 per cento della popolazione, con una crescita dell’1,3 nel 2022. Il 75,3 per cento dei cristiani in Israele è arabo e costituisce il 6,9 per cento della popolazione araba totale di Israele.

Le località con la più grande popolazione arabo-cristiana sono Nazareth (20.800), Haifa (16.800), Gerusalemme (13.000) e Shefaram (10.600). Per comprendere le proporzioni del problema, si guardi ai dati ufficiali del governo sulla popolazione israeliana: «Al 31 dicembre 2022 la popolazione di Israele» era «stimata in 9.656.000 residenti», di questi «7.106.000 sono ebrei (73,6 per cento della popolazione totale), 2.037.000 arabi (21,1 per cento) e 513.000 altri (5,3). Nel 2022 la popolazione di Israele è aumentata del 2,2 per cento; il 62 per cento dell’aumento è dovuto alla crescita naturale e il 38 per cento al saldo migratorio internazionale».

Il clima generale nel quale vivono i cristiani in Terra santa è ben testimoniato dal patriarca latino di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa, il quale, durante una celebrazione lo scorso 23 novembre, affermava: «Ancora una volta siamo costretti a manifestare tutta la nostra stanchezza per questa guerra, che ci ha logorato tutti, come mai prima di ora. Mai abbiamo visto in questi ultimi decenni così tanta violenza e odio. Diventa davvero difficile vedere una luce in questa lunga notte di dolore. Ma allo stesso tempo non vogliamo e non possiamo arrenderci all’arroganza, al potere della violenza, al ciclo di ritorsioni e vendette, e rimanere inermi di fronte alle macerie umane che tutto questo sta causando».

Un conflitto diplomatico

Dunque è da leggersi anche in tale prospettiva – in cui le conseguenze della guerra s’intrecciano con la demografia – il peggioramento repentino, avvenuto nel corso di tutto l’ultimo anno, delle relazioni politiche e diplomatiche fra Santa sede e Israele. Culmine di questo scontro sono state le parole del papa sulla necessità di affidare a esperti di diritto internazionale uno studio sul fatto che a Gaza sia in corso o meno un genocidio messo in atto dalle forze militari israeliane.

La dose è stata rincarata lo scorso 25 novembre, quando Francesco, nel corso dell’Atto commemorativo del 40° anniversario del trattato di pace tra Argentina e Cile, ha osservato: «Dio voglia che la comunità internazionale faccia prevalere la forza del diritto attraverso il dialogo, perché il dialogo dev’essere l’anima della comunità internazionale. Menziono semplicemente due fallimenti dell’umanità di oggi: Ucraina e Palestina, dove si soffre, dove la prepotenza dell’invasore prevale sul dialogo».

Ci sono pochi dubbi su chi siano gli invasori in Ucraina e Palestina. Parole pesanti che influenzeranno certamente l’evoluzione dei rapporti fra Chiesa ed ebraismo. D’altro canto, bisogna considerare che la guerra in corso non solo è ragione sufficiente per indurre a migrare i cristiani rimasti, ma è anche un potente acceleratore di povertà.

Infatti, da oltre un anno si sono quasi del tutto interrotti i pellegrinaggi verso la Terra santa; è venuta insomma meno una delle principali fonti di reddito per la popolazione arabo-cristiana. Tanto più che, nell’anno del Giubileo, era assai probabile che ci sarebbe stata una ricaduta positiva anche sul turismo religioso diretto in Terra santa.

Cristiani in fuga

Sotto questo profilo, è significativo quanto ha detto il 29 ottobre all’Osservatore romano il ministro del Turismo e dei Beni culturali dello Stato palestinese, Hani al-Hayek. «Sia gli arrivi dall’estero che il turismo domestico», ha affermato, «hanno registrato un crollo totale. Le nostre stime ci dicono che stiamo perdendo incassi per oltre 2,5 milioni di dollari al giorno; con Betlemme sola che ne perde 1,4. Almeno 12mila operatori turistici sono stati licenziati, a Betlemme hanno perso il lavoro almeno 6mila impiegati del turismo ricettivo. Ma a questi vanno aggiunte altre migliaia di lavoratori che potremmo definire dell’indotto, commercianti, tassisti e artigiani che confezionano oggetti religiosi col legno d’ulivo».

In un senso generale, ha proseguito l’esponente palestinese, «io credo che il pericolo maggiore sia nel fatto che questa rabbia e frustrazione potrebbe indurre un sempre maggior numero di famiglie a lasciare la Palestina, in cerca di un futuro migliore per sé stessi e i propri figli. E aggiungo che, dato che una porzione molto grande dei lavoratori impegnati nel settore del turismo e dei pellegrinaggi sono di religione cristiana, questo esodo implicherebbe un’ulteriore riduzione della popolazione cristiana nella regione».

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