Il cammino di penitenza di papa Francesco in Canada, il primo di un capo della chiesa cattolica, è iniziato lunedì con una lenta processione nella riserva di Ermineskin, il cuore verde di Maskwacis abitato dalle Prime nazioni Cree: «Nei deserti della storia, guida i nostri passi sulla via della riconciliazione» invocherà poche ore dopo Francesco nella chiesa del Sacro cuore dei primi popoli a Edmonton.

Ed è un deserto scisso tra il verde dei prati e il grigio del cielo quello che il papa percorre con il lento incedere della carrozzina, scandito drammaticamente dal tamburo con cui un anziano nativo lo accoglie alle porte dell’Ermineskin cemetery.

È il primo momento di raccoglimento del papa venuto alla fine del mondo in mezzo alle croci bianche inanellate negli acchiappasogni della spiritualità indigena, mai sradicata del tutto, come dirà Wilton Littlechild, capo aborigeno sopravvissuto alle scuole residenziali.

«L’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. L’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte»: il papa cita Elie Wiesel, scrittore sopravvissuto all’Olocausto, per raccontare la triste universalità del male. In una foto che ritrae il pontefice col suo seguito a Maskwacis, la scritta alle spalle dell’Ermineskin cemetery ha una somiglia sinistramente con l’Arbeit macht frei che campeggia ad Auschwitz: la presunta civiltà barattata con lo sterminio.

Il peso dei morti

(Ap)

Secondo l’Indian residential schools settlement agreement, su un totale di 139 scuole residenziali canadesi, 26 erano site nella provincia di Alberta (l’ultima è stata chiusa nel 1997). La chiesa cattolica ne gestiva il 60 per cento: la Commissione canadese per la verità e la riconciliazione ha individuato almeno 4mila bambini morti nelle strutture, un numero sottostimato per gli esperti.

Impressiona il lungo striscione rosso che reca il nome dei bambini morti delle scuole residenziali e che si snoda, come un rivolo di sangue, tra i 2mila partecipanti alla cerimonia di guarigione presieduta dal papa e dai rappresentati delle comunità indigene: «Chiedo perdono per i modi in cui molti cristiani hanno sostenuto la mentalità colonizzatrice delle potenze che hanno oppresso i popoli indigeni. Sono addolorato. Chiedo perdono, in particolare, per i modi in cui molti membri della Chiesa e delle comunità religiose hanno cooperato, anche attraverso l’indifferenza, a quei progetti di distruzione culturale e assimilazione forzata dei governi dell’epoca, culminati nel sistema delle scuole residenziali» supplica Francesco, mentre tutto il mondo guarda i volti segnati dalle lacrime dei nativi presenti.

C’è chi ha storto il naso davanti al papa che indossa il copricapo indiano, ma come spiega il teologo Andrea Grillo sulla rivista Munera: «Vestirsi di Cristo implica imparare a stare del tutto dentro ogni cultura. Solo così si possono vedere i limiti della tradizione».

Il papa s’inginocchia

Tra le parole che hanno rimarcato le prime due giornate c’è memoria: «La prima tappa del mio pellegrinaggio in mezzo a voi si svolge in questa regione che vede, da tempo immemorabile, la presenza delle popolazioni indigene.

È un territorio che ci parla, che permette di fare memoria» ricorda il papa, sottolineando al tempo stesso il paradosso di una chiesa agli antipodi del messaggio evangelico: «Quello che la fede cristiana ci dice è che si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo. Addolora sapere che quel terreno compatto di valori, lingua e cultura, che ha conferito alle vostre popolazioni un genuino senso di identità, è stato eroso, e che voi continuiate a pagarne gli effetti. Di fronte a questo male che indigna, la chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli».

La responsabilità della chiesa cattolica nell’emarginazione dei popoli nativi è tale che, una settimana fa, i capi della Prime Nazioni sopravvissuti alle scuole residenziali della regione di Edmonton avevano chiesto un supporto psicologico per i sopravvissuti alle vittime di abuso.

Papa Francesco lo sa, e ha reso topico il momento con la consegna di un paio di scarpette appartenute a una bambina non sopravvissuta alle scuole residenziali: «Vorrei prendere spunto proprio da questo simbolo, che ha ravvivato in me nei mesi passati il dolore, l’indignazione e la vergogna. Quei mocassini ci parlano anche di un cammino, di un percorso che desideriamo fare insieme».

Nuovo concilio nella chiesa

(Johannes Neudecker/picture-alliance/dpa/AP Images)

È la parola riconciliazione al centro del secondo incontro nella chiesa del Sacro Cuore dei Primi Popoli a Edmonton: «La Chiesa è la casa dove conciliarsi nuovamente, dove riunirsi per ripartire e crescere insieme. È il luogo dove si smette di pensarsi come individui per riconoscersi fratelli guardandosi negli occhi, accogliendo le storie e la cultura dell’altro, lasciando che la mistica dell’insieme, tanto gradita allo Spirito Santo, favorisca la guarigione della memoria ferita» dice il papa sotto il tepee, la struttura che sorregge la tenda indigena montata sopra l’altare.

La distonia tra la sua semplicità e l’opulente baldacchino berniniano è netta: «Se pensiamo al dolore incancellabile provato in questi luoghi da tanti all’interno di istituzioni ecclesiali, viene solo da provare rabbia e vergogna. Ciò è avvenuto quando i credenti si sono lasciati mondanizzare e, anziché promuovere la riconciliazione, hanno imposto il loro modello culturale. Questo atteggiamento è duro a morire, anche dal punto di vista religioso. Ma non funziona mai, perché il Signore non agisce così». 

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