L’imprenditore del tech di origine indiana, un tempo noto per le sue critiche articolate al vittimismo bipartisan della politica americana, si è trasformato in un sostenitore scatenato dell’ex presidente, tanto che l’interessato ha dichiarato di considerarlo per la posizione di vicepresidente
Nel 2022 Vivek Ramaswamy era un imprenditore tecnologico lontano dalla sinistra e critico delle idee cosiddette “woke”, da lui demolite in un saggio chiamato Nation of Victims, dove a venir criticati non erano soltanto i tic della sinistra progressista ma anche il vittimismo di una certa ala del partito repubblicano, segnatamente quella trumpiana, ritenuta incapace di guardare oltre.
Non solo: all’epoca questo giovane autore voleva che fossero i progressisti a cogliere il suo messaggio per tentare di risolvere le divisioni del paese. È bastata la sua candidatura alle primarie repubblicane per cancellare tutto questo, tanto da diventare uno dei preferiti dello stesso Donald Trump, che ha anche fliratato con l’idea di farne il candidato vicepresidente.
Rimane certamente l’aggressivo attacco al radicalismo di sinistra, ma è sparito quanto si diceva sul trumpismo in modo piuttosto articolato. Anzi, da qualche mese è diventato una sorta di Trump del ventunesimo secolo.
Con evidenti tentativi di replicarne gli exploit: come Trump nel 2015 anche Ramaswamy è un relativo neofita della politica: non ha mai occupato cariche elettive e vanta idee eterodosse rispetto al mainstream repubblicano.
Dopo il quadriennio trumpiano però è difficile dire cosa davvero possa essere fuori dagli schemi. Ramaswamy, complice un indubbio carisma personale che si abbina alla capacità di stare davanti a una telecamera, lo ha detto subito: finirla con le forniture di armi all’Ucraina, ma non solo.
L’autore illustra la sua dottrina, indicando come, attraverso la sua azione diplomatica, si possa operare un ordinato ritiro della presenza americana dalla scenario mondiale.
Una posizione che in realtà echeggia quella di un democratico piuttosto di sinistra, il senatore George McGovern, che durante la sua campagna presidenziale del 1972 coniò lo slogan per l’America che «torna a casa».
Ramaswamy però fa riferimento esplicito all’avversario di McGovern, Richard Nixon, che lui ritiene il suo “idolo” politico. Nixon, secondo l’opinione dell’autore, avrebbe spento tutti i focolai di guerra attraverso un sapiente uso della diplomazia, culminato con l’apertura alla Cina di Mao Zedong e al ritiro dal Vietnam. Scordandosi però che prima Nixon allargò il conflitto alla vicina Cambogia e al Laos per distruggere le linee del rifornimento dei Vietcong e che fu tentato persino di intervenire nella guerra dello Yom Kippur tra Israele e i suoi vicini arabi. Nixon riuscì anche a trasferire, superando le resistenze burocratiche di Congresso e agenzie federali, circa 22mila tonnellate di armamenti verso Tel Aviv.
Un po’ diverso dalla proposta di Ramaswamy verso Kiev. La veridicità storica però c’entra fino a un certo punto: l’imprenditore di origine indiana vuole porsi come erede non del Nixon reale, ma di quello immaginario, estromesso dall’establishment con la scusa del Watergate per le sue idee “non convenzionali”. Come accaduto a Donald Trump.
Il dibattito
L’ex presidente, un tempo criticato, ora invece è venerato. Durante il dibattito tra i candidati repubblicani lo scorso 23 agosto, infatti, è stato uno dei più strenui difensori dell’ex presidente.
Il quale lo ha notato e in un’intervista con il commentatore ultraconservatore Glenn Beck lo ha definito un giovane «molto intelligente» e «pieno di talento» che potrà anche essere scelto come suo vicepresidente, scegliendo quindi un ticket presidenziale di soli outsider.
La sua candidatura è sostenuta da alcuni soci in affari come Peter Thiel, tycoon della Silicon Valley noto per le sue idee ultraliberiste che sostiene la distruzione del cosiddetto “Stato amministrativo”. Forse, quindi, il dibattito in assenza di Trump è servito a ciò che temeva uno degli altri candidati, l’ex governatore del New Jersey Chris Christie, che al contrario è un feroce critico dell’ex presidente.
Il dibattito è servito come una sorta di contest per scegliere il vicepresidente di Trump ed eventualmente i membri del suo governo. Ramaswamy probabilmente lo sa e ponendosi come erede di Trump prevede un giorno di ereditarne la base sfruttando la sua giovane età. Una scelta azzardata che contata sulla trumpizzazione definitiva del partito repubblicano che però può non essere scontata. Trump piace non tanto per le sue idee, quanto per il suo spirito combattivo.
E non è detto che Ramaswami, nato da due genitori di origine indiana, abbia le capacità di piacere alla stessa fetta di America per conquistare la quale ha scelto di rinnegare le sue idee che esponeva sul Wall Street Journal in favore di un becero post trumpismo che nega seccamente il cambiamento climatico. Non esattamente una posizione originale.
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