La punizione esemplare del Partito comunista contro Alibaba e il suo fondatore per ripristinare la concorrenza in un settore chiave dell’economia (che vale un terzo del Pil) e costringere le imprese a investire in ricerca
- Al netto di fugaci comparse e della vox populi, la realtà è che Jack Ma, icona dell’imprenditoria privata cinese, da mesi è assente dalla scena pubblica.
- I guai di Ma erano incominciati il 24 ottobre scorso, quando durante un dibattito aveva criticato le banche di stato e i meccanismi regolatori, paragonandoli a un «banco dei pegni», e il sistema finanziario cinese.
- Non è un caso che il mese scorso anche nel quartiere generale pechinese di Alibaba sia stato inaugurato un comitato aziendale del Partito. Se e come un controllo politico sempre più capillare si rivelerà compatibile con lo sviluppo dinamico di questi settori rimane una questione tutta da chiarire.
Un’apparizione, 50 secondi, il 20 gennaio scorso, per elogiare in video conferenza le politiche del governo nelle aree rurali della Cina e un’altra, il 15 aprile, visibilmente annoiato durante un discorso di Vladimir Putin alla Società geografica russa. Tra l’una e l’altra una ridda di voci: «Ammazza il tempo allenandosi a tai chi quan», «è sempre a dipingere», e così via. Al netto di fugaci comparse e della vox populi, la realtà è che Jack Ma (al secolo Ma Yun), icona dell’imprenditoria privata cinese, da mesi è assente dalla scena pubblica.
Il fondatore di Alibaba che festeggiava l’inarrestabile ascesa della compagnia con migliaia di impiegati in uno stadio della sua Hangzhou, cantando i Righteous Brothers, Josh Groban, Michael Jackson, imbracciando la chitarra elettrica, indossando parrucche e chiodi pieni di borchie, non ha più un palcoscenico, è stato risucchiato nel buco nero riservato a chi ha osato sfidare il Partito comunista.
La sfida
I guai di Ma erano incominciati il 24 ottobre scorso, quando durante un dibattito aveva criticato le banche di stato e i meccanismi regolatori, paragonandoli a un «banco dei pegni», e il sistema finanziario cinese, definito «eredità dell’era industriale».
Forse l’ex insegnante d’inglese che ha inventato il commercio elettronico in Cina si sentiva già sul collo il fiato dell’antitrust che, alla fine dell’anno, avrebbe bloccato all’ultimo minuto quella che doveva essere l’offerta iniziale d’acquisto (Ipo) più ricca della storia, 37 miliardi di dollari da raccogliere nelle borse di Shanghai e Hong Kong per Ant Group, il braccio finanziario di Alibaba. Secondo indiscrezioni sarebbe stato Xi Jinping in persona a ordinare lo stop.
Poi, il 9 aprile scorso, ad Alibaba è stata appioppata una multa di 2,75 miliardi di dollari (pari al 4 per cento del suo fatturato 2019) per aver violato la legge anti-monopolio della Cina, «abusando della sua posizione dominante nelle piattaforme internet di vendita al dettaglio fin dal 2015, costringendo i venditori online ad aprire negozi o partecipare a promozioni soltanto sui suoi siti».
Mentre quest’ultimo provvedimento è arrivato per punire pratiche da anni sotto gli occhi di tutti, l’affossamento dell’Ipo di Ant Group (al quale è seguito, questo mese, il ritiro di una analoga da parte di JD.com, secondo colosso nazionale di ecommerce) è stata giustificata ex post dalle linee guida – appena varate da Pechino – che pongono un limite alle Ipo nel settore della finanza online (fintech) e vietano alle compagnie che promuovono investimenti finanziari (così come alle immobiliari) di quotarsi in borsa.
Nessun potere indipendente
Richard McGregor ha ricordato sul New York Times la «legge di ferro secondo la quale non può esistere alcun centro di potere individuale al di fuori del Partito». La spiegazione della caduta di Ma data dall’autore di The Party: The Secret World of China’s Communist Rulers convince solo in parte. Più probabile che il fondatore di Alibaba sia finito nel mirino non solo per la ricchezza (48 miliardi di dollari di patrimonio netto) e la popolarità accumulate, quanto ancor di più per due motivi. Il timore del governo per un’espansione incontrollata dei servizi finanziari online; e la volontà del Partito di lanciare un avvertimento all’intera galassia dei colossi di internet (è appena stata avviata un’altra clamorosa inchiesta anti-trust, questa volta contro Meituan, lo Uber eats locale, legato a Tencent). Insomma, come recita il vecchio slogan maoista, «colpirne uno per educarne cento».
La settimana scorsa l’Amministrazione cinese del cyberspazio (Cac) ha convocato una decina tra le maggiori compagnie di internet, tra le quali – oltre ad Alibaba – Tencent, Xiaomi, ByteDance, Kuaishou, NetEase e Ximalaya. L’organismo istituito da Xi Jinping per regolamentare e controllare la rete ha annunciato l’avvio ispezioni a sorpresa e invitato a rispettare leggi vigenti e, per dirla con il lessico immaginifico del governativo Global Times, a «salvaguardare tutti insieme l’ordine su internet e a creare una rete benigna e salubre».
Per anni il Partito comunista ha adottato una politica di laissez-faire nei confronti di queste aziende, che hanno tratto vantaggio da un sistema privo di regole, che tuttavia non ha esitato a metterle a riparo dalla concorrenza straniera, chiudendo a potenziali concorrenti stranieri un mercato di 800 milioni di utenti iperconnessi.
Quelli che ora sono diventate holding quotate in borsa che investono all’estero, in patria alimentano un ecosistema di startup innovative. Alibaba può essere considerata la “madre” attorno alla quale ruota un ecosistema di migliaia di aziende che sfornano continuamente nuovi prodotti e servizi online. La Cina, che ne ha 227, tallona gli Stati Uniti, dove ce ne sono 233, per quanto riguarda i cosiddetti “unicorni”, ovvero le start up tecnologiche private che hanno un valore superiore a un miliardo di dollari. Le innovazioni di queste compagnie possono trovare applicazione in ambiti strategici come quello industriale e militare, o della sanità. Per capire quanto ormai lo sviluppo dell’hi-tech sia legato alla competizione tra la seconda e la prima economia del pianeta, basti considerare che il 79 per cento degli unicorni è concentrato tra la Repubblica popolare e gli Usa. Le compagnie di internet costituiscono i pilastri di un’economia digitale che – secondo i dati del governo – nel 2019 ha generato il 36,2 per cento del prodotto interno lordo della Cina.
Nuovi investimenti
Gli analisti del settore (cinesi e non) sottolineano che l’intervento del governo per fermare l’abuso di posizione dominante da parte di Alibaba è in linea con le best practice delle economie di mercato e punta effettivamente ad assicurare la concorrenza, impedendo la formazione di onnipotenti monopoli. Ma nella repubblica popolare cinese un provvedimento di questa portata, così come il precedente affondamento dell’Ipo di Ant Group e la “sparizione” di Jack Ma, non può non avere motivazioni anche politiche.
Non è un caso che il mese scorso anche nel quartiere generale pechinese di Alibaba sia stato inaugurato un comitato aziendale del Partito.
In un paese nel quale ormai ogni azienda privata ha al suo interno almeno un rappresentante del partito, Wang Hao, il segretario del Pcc di Chaoyang (il distretto dove sorgono gli uffici di Alibaba), ha spiegato che la compagnia deve partecipare attivamente al lavoro di rafforzamento del Partito e al suo modello di gestione dell’economia, e accelerare l’innovazione tecnologica attraverso la ricerca e sviluppo.
La strategia del Partito infatti non si limita a controllare l’espansione di queste aziende private, ma vuole spingerle a partecipare – aumentando gli investimenti in ricerca e sviluppo – a quella “innovazione autoctona” («zìzhŭ chuàngxīn») che dovrebbe accelerare la rincorsa della tecnologia cinese per raggiungere le economie avanzate. Sacrificare le attività finanziarie (e i relativi profitti) a vantaggio di ricerca e sviluppo: nell’ultimo paio d’anni, il presidente cinese, Xi Jinping, ha illustrato questa direttiva nel corso di una serie di incontri con i capitalisti cinesi, invocando la loro lealtà al Partito e il loro aiuto per raggiungere il traguardo della “rinascita nazionale”. Tang Jianwei, un economista della Bank of Communications (il quinto colosso pubblico del credito in Cina) ha spiegato in una nota che l’obiettivo del governo è obbligare le grandi aziende di internet e del settore hi-tech a contribuire a finanziare in maniera determinante la ricerca scientifica di base, invece di continuare ad accumulare profitti grazie alla gestione di servizi in regime di monopolio.
«Le grandi imprese tecnologiche in possesso di enormi quantità di dati (che secondo un provvedimento appena varato dovranno essere controllati da organismi “indipendenti”, nda) e algoritmi avanzati devono farsi carico di maggiori responsabilità e spendere di più nell’innovazione tecnologica originale e fondamentale», ha spiegato Tang. Se e come un controllo politico sempre più capillare si rivelerà compatibile con lo sviluppo dinamico di questi settori rimane una questione tutta da chiarire. In linea con questa impostazione – ne sono convinti gli economisti cinesi – lo scrutinio che si è abbattuto su Alibaba colpirà presto tante altre compagnie. Se e come un controllo politico sempre più capillare si rivelerà compatibile con lo sviluppo dinamico di questi settori rimane una questione tutta da chiarire.
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