- Il candidato sindaco di Roma Carlo Calenda ha proposto di unire tutti i principali musei archeologici di Roma in un unico polo dove oggi ci sono gli uffici del comune.
- Critici dell'arte ed esperti hanno criticato duramente la proposta, ma in realtà c’è più di qualcosa di buono. Ci sono però anche molti problemi nel realizzarla praticamente.
- Sono problemi pratici, relativi alla competenza comunale o statale su certi musei. Ma ci sono anche problemi “museografici”. Ad esempio: è giusto separare una collezione accumulata nei secoli?
Fare dei Musei Capitolini un unico museo in cui siano raccolte tutte le testimonianze relative alla storia romana è la proposta provocatoria che il candidato sindaco Carlo Calenda ha lanciato in questi giorni con un documento di dodici pagine intitolato “Un museo unico per una Roma antica” e un video su YouTube.
In sintesi, Calenda chiede di mettere insieme le collezioni di almeno quattro musei – Museo della Civiltà Romana, Museo Nazionale Romano, Museo di Roma e Centrale Montemartini – entro lo spazio del Campidoglio, spostando gli uffici amministrativi in altra sede. A dar credito alle reazioni degli archeologi e degli storici dell’arte, Calenda non avrebbe potuto avere idea più infelice per la città e per la sua campagna elettorale. Penso invece che la proposta di destinare alla fruizione museale gli spazi attualmente occupati dagli uffici amministrativi sia meritoria, perché metterebbe a disposizione dei cittadini dei luoghi che il potere politico locale, notoriamente inefficiente, e non certo da ieri, ha riservato a sé. Più di un problema emerge invece dalla proposta di raccogliere nell’area del Campidoglio le grandi collezioni presenti nella città.
Questo comporterebbe, per esempio, il trasferimento della sezione della Pinacoteca Capitolina presso palazzo Barberini, innescando una serie di conflitti tra amministrazione comunale e statale. Le competenze dei musei citati da Calenda sono infatti distribuite tra stato e amministrazione cittadina.
Calenda guarda alle attività museali integrando l’aspetto gestionale, l’offerta culturale e gli allestimenti espositivi. Con l’ottica della ottimizzazione tipica della cultura manageriale, l’idea mira a risolvere oggettivi problemi legati agli spazi espositivi, non ultimo quello dei volumi che sarebbero necessari. Per Calenda, l’intreccio di competenze statali e comunali, che da più parti è stato visto come fonte di conflitto, potrebbe divenire efficace occasione di collaborazione.
Nella situazione attuale, tale conflitto potrebbe essere gestito solo da una politica culturale centralizzata che l’Italia non è stata in grado di realizzare, come dimostrano le nostre sovrintendenze, la cui operatività è resa inefficiente dall’assenza di un serio progetto di turnover e di arruolamento di nuovo personale specializzato.
Difficoltà museografiche
Dal punto di vista museografico non è chiaro come si possa accogliere in un unico spazio, per quanto ampio questo possa essere, una raccolta esaustiva di testimonianze che sia in grado di esprimere la ricchezza e la complessità della storia di Roma. Non va dimenticato che, diversamente da altre città la cui peculiarità si è manifestata in un determinato arco temporale, Roma ha sviluppato la sua storia nel corso di oltre due millenni, nella repubblica, nell’impero, nel papato, nelle invasioni barbariche, nella modernità, nello stato unitario. In ognuno di questi momenti storici si è assistito all’intreccio di culture, modelli istituzionali e tradizioni artistiche differenti e confliggenti.
Come si può mettere insieme tutto questo? La pluralità dei musei romani esprime proprio questa dimensione policentrica della città. Ridurla a unità sarebbe velleitario oltre che semplicistico e inefficace. L’opinione che me ne sono fatto è che lo stesso Calenda non creda realizzabile – quantomeno non in tempi brevi – la sua proposta, e che con la sua dichiarazione abbia voluto gettare un sasso in piccionaia per sollevare, in campagna elettorale, un dibattito su un tema particolarmente sentito a Roma. Non si può tuttavia disconoscere l’aspetto positivo rappresentato dall’attenzione verso il ruolo didattico che il museo può esercitare con una organizzazione diversa rispetto ai consueti orientamenti museografici.
È innegabile che l’idea di un museo unitario della storia di Roma comprometterebbe la specificità delle singole realtà museali romane che, laddove per esempio provengano da singole collezioni una volta private, portano con sé una narrazione che non è giusto disconoscere. Nel caso in cui un museo raccolga la collezione di una famiglia, sarebbe corretto smantellarla a vantaggio di una sola struttura che consacri la città eterna? O ancora: si può pensare che determinate opere, di Bernini o di Caravaggio, per esempio, commissionate dalle grandi famiglie aristocratiche e concepite per essere inserite in precisi luoghi, vengano spostate e ricollocate in altri spazi? E come la si mette con la legge che non consente lo smembramento delle collezioni? Qui si coglie il limite del progetto di Calenda, che ha però il merito di andare ben oltre il programma del candidato della destra, Enrico Michetti, legato ai valori della Roma eterna, valori cari a una tradizione politica che si alimenta di nostalgie.
Elitismo e pubblico
Resta il fatto che non si possono sottacere le ragioni di quanti mettono in luce che non è possibile offrire al visitatore di un museo una chiave di lettura unitaria della storia di Roma. È innegabile che, come afferma Calenda, una visita ai Musei Capitolini non consente di comprendere quale fosse il valore del Senato, del cursus honorum, della funzione del proconsole... Mettere in evidenza questa debolezza dei musei romani presta tuttavia il fianco a critiche, ironie e reazioni stizzite degli addetti ai lavori, che sicuramente hanno visto nelle parole di Calenda la sicurezza e i toni – ma non l’autorevolezza – di un ordinario di Storia romana o in generale di un antichista. Si tratta infatti di argomentazioni che riconducono a quella cultura d’impresa che tende a razionalizzare le competenze per rendere efficienti i servizi. L’idea che si possano unificare diverse espressioni museali con la stessa logica con cui si opera in un’azienda svilisce il ruolo stesso del museo. Tuttavia, avvicinare il museo a una fruizione diffusa significa anche rimettere in discussione i criteri elitistici che da sempre hanno caratterizzato il mondo dell’archeologia come quello della filologia.
Sarebbe invece auspicabile distinguere tra il linguaggio scientifico che si rivolge agli specialisti e l’offerta museale che si rivolge a chiunque sia mosso da un interesse per la storia di Roma.
L’approccio specialistico alle testimonianze del passato si pone come una barriera che rischia di compromettere la funzione formativa, che viene meno nel momento in cui l’arte risulta incomprensibile ai più. Mettere in discussione l’approccio specialistico non implica la banalizzazione: creare un nuovo registro linguistico in grado di togliere più di una ragnatela dai musei e delle soprintendenze sarebbe auspicabile.
Un’idea contemporanea
Mi occupo di arte contemporanea da oltre quarant’anni e non mi è difficile individuare nelle posizioni di Calenda l’influenza di consulenti più avvezzi all’arte del presente che a quella del passato. Nell’immaginario di chi frequenta i territori dell’arte moderna e contemporanea il luogo simbolo in cui si può avere una visione unitaria di periodo storico che muove dall’inizio del XX secolo mette al primo posto il Centre Pompidou di Parigi. Chiaramente è più facile riunire le opere di un secolo e mezzo che raccogliere testimonianze di oltre due millenni.
Chi ha consigliato Calenda sicuramente stava pensando al Pompidou, alla Tate Modern o al MoMA. Perché in Italia non esiste un corrispettivo di queste realtà museali, mentre siamo stati un modello per realtà museali tradizionali come il Louvre o il British Museum? Non abbiamo avuto in Italia una seria politica di acquisizioni di opere contemporanee, come invece è avvenuto in Francia o in Inghilterra, con il risultato che i nostri musei d’arte contemporanea sono deboli e perlopiù frutto di donazioni di collezionisti privati. Nessun governo è stato capace di portare avanti una sana politica di acquisizioni. A far da contraltare a questa disattenzione dello stato nei confronti del presente è stato il grande interesse verso musei del passato. Un passato che abbiamo ereditato. Così, ci si è concentrati sulla conservazione senza comprendere che non basta la semplice cura dei reperti per rendere vivo il passato.
Se il dibattito non si orienterà in questa direzione, rischia di essere sterile, nel senso che resterà lettera morta perché un museo unitario a Roma sappiamo tutti che non ci sarà mai, mentre un vero museo che raccolga le testimonianze più vive dell’arte contemporanea resterà un miraggio.
© Riproduzione riservata