Mio padre fu viaggiatore prima che giornalista, e in ogni viaggio portò con sé il privilegio dello stupore. Come fai a non stupirti nella controra livida della piazza di Corleone, nel linguaggio silenzioso degli sguardi al circolo dei civili?
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Che Sicilia è questa di Giuseppe Fava, così allegorica, ruffiana, rumorosa, capace di improvvise cupezze e di assolute violenze? Sembra finta, una Sicilia da cinema; di più, da cartoline illustrate, ogni posa un quadro per raccontare un eccesso, un vizio, una finzione di virtù…
Quando cominciai (meglio: ricominciai) a fare il giornalista dopo la lunga avventura dei Siciliani, ogni volta che riprendevo in mano queste sue vecchie inchieste, pubblicate dall’editore bolognese Capelli nel 1980, mi sembravano storie d’un altro mondo. Come se le cose accadute, la morte di mio padre, la codardia del potere, l’ignavia delle città, l’oscena impunità dei mafiosi e dei loro amici avessero reso ormai arida la terra.
Non c’era posto per altro, nemmeno per gli aggettivi che compongono le stazioni di questo viaggio e che parlano d’una terra desolata ma viva: il dolore, la bellezza, la violenza… A me sembrava che non ci fosse più posto per alcuna parola, che la Sicilia fosse ormai vinta, sottomessa, arresa.
E che i lunghi racconti di viaggio di mio padre fossero piccoli poemi epici, densi di letteratura come i romanzi di John Steinbeck: uomini e topi di Sicilia, personaggi estremi, straordinari ma irreali. Mi sbagliavo, naturalmente.
La Sicilia raccontata da Giuseppe Fava in questo libro è il ritratto fedele della condizione umana di un popolo. Certo, raccontato con lo stile di un autore che cercava di non annoiarsi anche quando scriveva, e che non amava le realtà ricompilate, una cifra accanto all’altra, un’intervistina accanto all’altra. Ecco: chi cerca cifre, dati, addizioni resterà deluso.
Chi cerca lo spirito del popolo siciliano ne trarrà godimento. Molti hanno provato a riportarlo in vita, quello spirito, ma alla fine si affidavano solo allo scrupolo del buon giornalista: ne venivano fuori ritratti scrupolosi, appunto, ma senza anima.
Mio padre fu viaggiatore prima che giornalista, e in ogni viaggio portò con sé il privilegio dello stupore. Come fai a non stupirti nella controra livida della piazza di Corleone, nel linguaggio silenzioso degli sguardi al circolo dei civili? Il giornalista avrebbe raccontato solo la paura; Giuseppe Fava vi percepiva lo sberleffo, l’ironia, la disperata goliardia d’un paese muto di mafia.
E così le altre storie, tutti stracci colorati per dire la bellezza, la speranza, la fatica del dolore, come se i siciliani si sentissero chiamati sempre a raccontare se stessi su un palcoscenico, accompagnando la recita del proprio destino con gesti, allusioni, lacrime e pernacchie.
Quel viaggio alla fine l’ho intrapreso anch’io, anche se non era il racconto letterario ma quello politico a tenermi compagnia.
E i siciliani che ho conosciuto sono gli stessi che incrociò mio padre, immobili pur nel mutare delle cose, eterni nella loro condizione umana, felici di non cambiare, felici di non invecchiare.
Solo che Giuseppe Fava seppe raccontarli. Noi no.
Claudio Fava
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