Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Tommaso Buscetta è stato sicuramente il pentito più importante nella storia della mafia, ma in quei primi anni Ottanta, prima di lui, si fecero avanti per collaborare con lo Stato criminali che, pur non essendo “uomini d’onore”, avevano rapporti con Cosa nostra.

Penso ad esempio a Vincenzo Sinagra, un killer che non faceva parte di nessuna “famiglia”, ma “collaborava” con Cosa nostra. Arrestato nell’agosto 1982, vittima di un esaurimento nervoso, prese la decisione di “affidarsi” a Paolo Borsellino raccontando la sua vita criminale.

In particolare, ammise di avere partecipato ad alcune delle “imprese” delittuose di Filippo Marchese, capo della cosca di Corso dei Mille, un quartiere di Palermo, come la nota “strage di Natale”, quando a Bagheria la mattina del 25 dicembre 1981 un commando di killer a bordo di due autovetture, guidato da Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, tese un agguato, sparando all’impazzata tra le strade del paese, a Giovanni Di Peri, capo della “famiglia” di Villabate, al suo vicecapo Antonino Pitarresi e al figlio di quest’ultimo, Biagio. Sul terreno rimasero Giovanni Di Peri, Biagio Pitarresi e Onofrio Valvola, un ignaro passante, mentre Antonino Pitarresi venne caricato su di una autovettura e ucciso in un secondo tempo perché ai killer erano terminate le munizioni.

Uno dei killer aveva lasciato un’impronta digitale sul volante di una delle macchine usate per l’agguato (era stata data alle fiamme ma non completamente distrutta), sulla quale venne disposta una perizia dattiloscopica, affidata a un collegio peritale di cui faceva parte il professore Paolo Giaccone, al cui esito si accertò che quella impronta apparteneva a Giuseppe Marchese, boss della “famiglia” di Corso dei Mille. Giaccone subì pressioni, tramite un comune amico suo e dei Marchese (del quale parlò alla moglie ma senza riferirne le generalità), perché “ammorbidisse” le conclusioni in modo da dare “spazio” alla difesa degli imputati. Ma Giaccone, da medico fedele al giuramento di Ippocrate, rifiutò ogni compromesso firmando così la sua condanna a morte. La mattina dell’11 agosto 1982, mentre si recava all’Istituto di Medicina Legale del Policlinico Universitario di Palermo, di cui era direttore, fu raggiunto da due killer e ucciso con tre colpi di revolver calibro 38 e due colpi di pistola Beretta calibro 9 parabellum.

La storia di Paolo Giaccone è la storia di un eroe borghese. Ci insegna che non è necessario rivestire particolari posizioni di potere per combattere ogni forma di illegalità, da chiunque sia posta in essere. Ciascuno di noi è chiamato ad adempiere al proprio dovere, qualunque sia il ruolo nella società, nella consapevolezza che ci sono stati uomini che hanno sacrificato il bene supremo della vita nell’azione di contrasto all’illegalità e alla criminalità.

Un altro “pentito”, Vincenzo Marsala, passò dall’altra parte della barricata dopo l’omicidio, avvenuto nel 1983, di suo padre Mariano Marsala, “uomo d’onore” della “famiglia” di Vicari, un paese del palermitano nella zona di Corleone. L’importanza della collaborazione è dovuta al fatto che Marsala nelle sue dichiarazioni diede risalto alla figura di Totò Riina, che da più di dieci anni era sparito dai radar di polizia e carabinieri. Peraltro, di Riina e Provenzano sono esistite per lungo tempo due vecchie foto diventate sempre meno “somiglianti” con il passare degli anni.

Le rivelazioni di Marsala permisero di accertare che la guerra in atto a Palermo aveva avuto tragici effetti anche in provincia.

L’attendibilità di Marsala è stata passata al vaglio della Corte di Assise di Palermo che, anche sulla base delle sue dichiarazioni, ha emesso sentenza di condanna per reati associativi a carico di vari mafiosi. Il pentito spiegò le regole elettorali di Cosa nostra, che da sempre votava per la Democrazia Cristiana, in quanto i suoi adepti “erano quelli che proteggevano maggiormente la mafia”. In particolare Peppe Marsala (capo mandamento di Vicari) appoggiava sempre Salvo Lima, ma tutta l’organizzazione “militava” a favore di altri esponenti della Dc come Mario D’Acquisto, Vincenzo Carollo e Mario Fasino.

La regola, la “consegna” fondamentale, a cui si dovevano attenere gli “uomini d’onore”, era quella di fare propaganda solo in favore della Dc, mentre era severamente vietato fare propaganda o votare per comunisti e fascisti.

Erano però previste delle eccezioni. Infatti si poteva votare per politici di altri partiti, ma a titolo esclusivamente personale, per ricambiare favori ricevuti, e comunque con divieto assoluto di fare propaganda. Il rapporto con i politici, inoltre, non poteva essere mantenuto da un qualsiasi “uomo d’onore”, ma soltanto dai capi mandamento o da membri della “famiglia” con un grado piuttosto elevato nella gerarchia dell’organizzazione.

© Riproduzione riservata