“Controcorrente” mi sembra un titolo appropriato a qualche rilievo critico circa taluni luoghi comuni ricorrenti nelle letture politiche della congiuntura che hanno preso corpo dopo i recenti test regionali. Cominciamo dalla prima attrice, Meloni.

D’accordo, gode ancora di un largo consenso, al momento la sua leadership nel destracentro è incontrastata. Ma noto che un po’ troppo generosamente numerosi commentatori danno per compiuto il suo approdo a un profilo politico di stampo liberal-conservatore. Senza scomodare la fiamma tricolore che ancora campeggia nel simbolo del suo partito, molti sono gli indizi di ambiguità e contraddizioni tutt’altro che risolte: il noto mix di vittimismo e protervia, la sua incontenibile postura da comiziante in palese contrasto con il portamento richiesto dalla responsabilità di guida del governo, le radici e la cultura della sua classe dirigente, le relazioni politiche internazionali (da Orbán a Vox sino a Zemmour che scavalca a destra la Le Pen), le concrete politiche più corporative che liberali e l’oscillazione tra proclami garantisti e ricette panpenaliste, il “premierato assoluto” con il quale essa intende proporsi quale madre di una nuova Repubblica che archivia la Repubblica dei padri costituenti...

La relativa tenuta di FI ha dato la stura, a destra e a sinistra, a una rappresentazione retrospettiva del berlusconismo come espressione di una cultura e di una politica ispirate a moderazione, nonché a un suo asserito europeismo. Cancellando d’un canto gli strappi istituzionali e la refrattarietà alle regole del defunto fondatore. Un sedicente liberale (lui monopolista) la cui rivoluzione liberale sempre promessa è puntualmente fallita.

Una narrazione fantasiosa e smemorata. Salvo qualche parentesi, il Cavaliere si è semmai segnalato per gesti e per politiche ispirate a radicalismo; egli ha incarnato l’irruzione prima e l’apoteosi poi del populismo nostrano. Grazie anche a una leadership seduttiva che poteva avvalersi di uno smisurato potere mediatico e finanziario. A dispetto della sua formale adesione alla famiglia dei popolari europei, è difficile iscriverlo al campo degli europeisti.

Sin dal suo esordio, si pensi alla rottura del fronte europeo in occasione della Guerra del Golfo e alle dimissioni polemiche del suo primo ministro degli Esteri, lui sì europeista, Renato Ruggero. Per tacere dei sorrisi irridenti di Merkel e Sarkozy e del volto impietrito di Fini a fronte dello scontro di Berlusconi con il socialista Schulz al parlamento Ue.

Era necessario che si riaffacciasse il faccendiere Lavitola per farci memoria, in uno squarcio, della compravendita di senatori e del linciaggio mediatico di Fini? Veniamo alla Lega. Certo, oggi, Salvini è in caduta libera e si dimena scompostamente per ritagliarsi uno spazio a destra della Meloni.

Tuttavia, mi fa sorridere la tendenza a rappresentare la Lega bossiana quasi fosse stata a sua volta espressione di moderatismo. Di nuovo fa difetto la memoria. La sua oscillazione tra retorica federalista e velleità secessioniste non mi pare meriti rimpianto e nostalgia. Né mi sembra siano ben riposte le attese di chi fa affidamento sulla circostanza che gli amministratori leghisti possano fare le scarpe a Salvini. Sono decenni che, vanamente, li si evoca e li si invoca.

Ma non se ne conosce uno solo dotato di vocazione e determinazione atte a scalzarlo. I sapienti opinionisti che, specie dopo l’Abruzzo, come da tradizione, ci spiegano che si vince al centro, faticano poi a spiegare come le molteplici sigle centriste raccolgano un consenso tanto modesto. Si limitano ad ascriverne la responsabilità al carattere e alla litigiosità dei protagonisti. Dopo decenni di fallimenti, meriterebbe piuttosto interrogarsi sulle ragioni politiche oggettive dell’araba fenice di un centro che non decolla mai e della dinamica del consenso che continua a conoscere una polarizzazione. Certo per le regole elettorali, ma forse anche perché, più in radice, l’umore di fondo di un paese sofferente e lacerato non premia facilmente chi – salvo intendersi – offre ricette moderate. Esso semmai prescrive una certa, ben intesa radicalità nel cambiamento.

C’è poi il mantra della contesa per la leadership tra Pd e M5s. Un topos per cui vanno pazzi certi opinionisti. Non escludo che, soggettivamente, su entrambi i fronti, i due leader ci possano aspirare. Sbaglierò, ma io faccio credito a entrambi della consapevolezza che non sia questo il primo né il principale dei problemi, che ben altro e prioritario peso abbiano le differenze politico-programmatiche da appianare. Solo poi a suo tempo, si scioglierà il nodo della premiership.

E non è escluso, anzi è probabile che, al dunque, si valuti concordemente di puntare su una figura terza considerata più idonea a operare una sintesi ed elettoralmente più competitiva. In fondo, nulla di nuovo. Fu così al tempo di Prodi, che resta pur sempre il solo che sconfisse Berlusconi e portò tutta la sinistra a responsabilità di governo. Perché dare credito alla narrazione – interessata, non innocente – di chi sostiene che l’antagonismo tra Schlein e Conte rappresenterebbe un macigno insormontabile?
 

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