Nel romanzo di Herman Hesse Il Pellegrinaggio in Oriente a un certo punto il narratore si accorge che la sua identità, il suo Io, si stanno misteriosamente trasferendo in quelli di un altro personaggio, Leo. Scrive Hesse: “Col tempo l’intera sostanza sarebbe probabilmente passata da una delle immagini nell’altra e ne sarebbe rimasta una sola: Leo. Egli doveva crescere, io dovevo diminuire”.

Nulla di scientifico, molto di filosofico; a rileggerla oggi, però, la sua riflessione sul legame ambiguo fra creatore e creatura di finzione, ben si attaglia a inquadrare il rapporto modernissimo fra l’Io fisico e il nostro “gemello digitale”; un’entità quest’ultima, che può declinarsi in svariate forme: da semplice assistente digitale a replica virtuale di alcune nostre caratteristiche fisiche e biologiche (per tarare al meglio le terapie sanitarie), fino al tentativo di creare un vero e proprio clone di noi stessi che agisca su nostro mandato sul Web: partecipando a incontri su Zoom, tenendo lezioni su YouTube, corteggiando umani (o i loro twin) sulle app di dating.

Prove di Doppelgänger virtuale

È un tema di cui gli addetti ai lavori discutono da tempo, ma che ha subito un’accelerazione repentina da quando l’intelligenza artificiale generativa applicata ai testi, al suono e ai video, ha reso molto più semplice creare simulacri personali con cui è possibile interagire.

È notizia recente, ad esempio, che Instagram ha lanciato (solo negli Usa) “AI Studio” una funzione con cui i creatori di contenuti possono dar vita a dei chatbot tarati sulla loro personalità, il loro stile comunicativo, il loro bagaglio di conoscenze, che potranno interagire con i follower, consentendo ai supervisori umani di ottimizzare il tempo a disposizione (impossibile se no stare dietro a tutto), e di rivolgersi a un pubblico più vasto. Per ora solo in forma testuale, ma nulla vieta che in un prossimo futuro si possano creare degli avatar che dialoghino con i fan in video o tramite podcast.

Poco prima, uno dei fondatori di LinkedIn, Reid Hoffman aveva condiviso sul social network una video intervista con Reid AI, il suo gemello digitale, creato sulla base di due decenni di scritti e filmati che l’intelligenza artificiale ha analizzato per dar vita al carattere del “doppelganger” di Hoffman. Due società specializzate, HourOne per il video e ElevenLabs per la voce, hanno poi fatto il resto.

Oppure vale la pena ricordare LuFlot, il chabot che alcuni studenti del celebre filosofo di Etica del Digitale Luciano Floridi hanno sviluppato assemblando la conoscenza del loro docente (o parte di essa) in uno strumento che chiunque può interrogare.

Da avatar a gemello digitale

Sono solo alcuni esempi di applicazioni che cercano di replicare digitalmente alcune caratteristiche di un singolo individuo, realizzazioni fino a qualche tempo fa impensabili, ma che comunque rappresentano soltanto un timido embrione di quanto arriverà in futuro.

Ad oggi sono più dei simulacri “statici”, le cui prestazioni dipendono dalla conoscenza infusa una tantum nel bot, che dei veri e propri “gemelli digitali” che si modificano e adattano sulla base di un flusso continuo di informazioni proveniente dall’equivalente fisico, un po’ come accade nel caso delle turbine dei Boeing o nei modelli di Tesla. Il concetto di digital twin nasce infatti in primis in ambito industriale, per rendere più efficiente il processo di gestione e manutenzione di prodotti e singoli componenti, e solo di recente se ne sta estendendo l’applicazione agli esseri umani.

Il settore in cui il “personal digital twin” o “human digital twin”, il gemello digitale di un essere umano, troverà inizialmente la sua più vasta applicazione è con ogni probabilità quello medico. Già oggi esistono modelli digitali del cuore umano e di altri organi o parti del corpo. Il progetto europeo Neurotwin ambisce addirittura a creare una copia digitale della mente.

L’obiettivo, nel lungo termine è quello di monitorare in maniera costante e capillare i parametri fisiologici del paziente umano, trasferirli sul corrispondente gemello digitale, e su di esso condurre simulazioni e sperimentazioni che possano condurre ad una terapia il più possibile efficace e personalizzata. Vasto programma, direbbe quel tale. Già qui si aprono tutta una serie di interrogativi, etici e filosofici: sarà lecito, ad esempio, rifiutarsi di rendere disponibile ai medici (o alle assicurazioni) il proprio gemello digitale? Si avrà in questo caso accesso a un’assistenza medica di secondo livello?

Tuttavia, siamo ancora nell’ambito della replica meccanicistica e fisiologica dell’essere umano.

Scambi di personalità e inconscio digitale

Le cose si complicano ulteriormente se immaginiamo che il nostro digital twin replichi anche in qualche modo i cambiamenti della nostra personalità, le nostre emozioni, i nostri comportamenti.

Attingendo, in una prima fase, a quello che lo studioso canadese Derrick De Kerchove chiama il nostro “inconscio digitale”, ovvero tutte le tracce, i data points che creiamo e disseminiamo nell’ambiente virtuale senza accorgercene e che a loro volta vengono usati da aziende e istituzioni per influenzarci.

In una seconda fase, come racconta fra gli altri il compianto esperto di tecnologia Roberto Saracco, la simbiosi fra digitale e reale potrebbe farsi ancora più stretta tramite le interfacce neurali, le Brain Computer Interfaces (BCI) che sta elaborando fra gli altri Elon Musk con la sua azienda Neuralink.

In questo scenario l’essere umano potrà fornire in tempo reale dati al suo equivalente virtuale e a sua volta attingere alle infinite nozioni e capacità computazionali del digitale.

E qui torniamo a Hermann Hesse.

Perché, è possibile, come auspica Saracco (che usa volutamente per questo il termine personal digital twin), che lo stadio finale della nostra evoluzione digitale veda l’essere umano utilizzare il proprio gemello per riappropriarsi del controllo sulla propria esistenza virtuale, togliendolo a corporation e governi. Ma c’è anche il rischio, come sottolineano De Kerchove e Maria Pia Rossignaud nel saggio Oltre Orwell. Il gemello digitale, di assistere a un’ulteriore esternalizzazione di funzioni cognitive dalla persona umana al suo doppio digitale e una crescente perdita di autonomia dell’umano.

Già oggi deleghiamo sempre più funzioni alle macchine. La memoria visiva allo smartphone su cui immagazziniamo le foto, il senso dell’orientamento al navigatore satellitare, più di recente a ChatGpt e simili a cui chiediamo di scriverci email e perfino articoli (non questo) per evitare di faticare.

Come nel Pellegrinaggio in Oriente, con una trasfusione di bit il nostro Io potrebbe diluirsi nel suo alter ego virtuale, capace, grazie ai Big Data, di conoscerci meglio di quanto noi stessi ci conosciamo e di prendere perfino iniziative autonome.

Fantascienza, si dirà, letteratura. Può darsi, ma sempre meglio non rischiare.

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