- Frances Haugen è l’ultima whistleblower in ordine di tempo ad aver rivelato alcuni aspetti controversi dell’operato di Facebook, ma non è la sola.
- Il whistleblowing è una conseguenza delle attitudini spesso molto poco trasparenti delle aziende Big Tech.
- La sfera pubblica è ormai privatizzata, esistono troppe asimmetrie informazionali - o “black box” - che impediscono il controllo delle sue dinamiche democratiche.
Quello di Frances Haugen, la project manager di Facebook divenuta whistleblower e fonte dei “Facebook Files” pubblicati dal Wall Street Journal, è il caso più recente di whistleblowing proveniente dalle grandi aziende tecnologiche. Sophie Zhang, un’altra whistleblower di Facebook, aveva denunciato già nel 2020 la poca coerenza dell’azienda di Mark Zuckerberg nei confronti della manipolazione politica della sua piattaforma da parte degli attori politici.
Facebook ha respinto queste accuse, ma la visibilità di Frances Haugen ha riacceso l’interesse anche nei confronti delle rivelazioni di Zhang, a sua volta chiamata ora a testimoniare di fronte diverse autorità pubbliche.Inoltre, diverse persone impegnate come contractor da Facebook per la moderazione dei contenuti hanno denunciato anonimamente le loro condizioni di lavoro psicologicamente provanti e la scarsa trasparenza delle policy che sono chiamati a implementare nei confronti del peggio che l’umanità può pubblicare sulla piattaforma: violenza, abusi, estremismo, pedo-pornografia.
Negli anni, queste rivelazioni sono apparse sulle pagine di Guardian, New York Times, ProPublica e altre testate internazionali di primo piano. Altri esempi, resi possibili da whistleblower anonimi o meno, hanno interessato anche altre aziende tecnologiche, come Amazon, Google, Pinterest o Uber. I whistleblower - insider che dall’interno delle organizzazioni denunciano nell’interesse pubblico elementi o fatti controversi - sono spesso l’unica risorsa disponibile per garantire all’opinione pubblica accesso a questioni che, altrimenti, rimarrebbero coperte da segreto.
Black box
Le corporation della Silicon Valley sono spesso avvolte da una coltre di inaccessibilità che impedisce un reale scrutinio sulle loro azioni, sulle loro scelte, le loro policy o sulle loro responsabilità, specialmente per quanto riguarda il loro ruolo come spazi pubblici.
Queste aziende, contrariamente ai continui proclami alla trasparenza e alla connessione che ne caratterizza la retorica, sono le “black box” (“scatole nere”) teorizzate dal sociologo Frank Pasquale: conosciamo gli input e gli output ma non i meccanismi che dai primi portano ai secondi.
Per Pasquale, gli algoritmi sono gli esempi più lampanti di black box: agiscono in modi che ci paiono quasi “magici”, per citare il lavoro di Vincent Mosco, un altro grande sociologo.
Questa ineffabilità degli algoritmi è il prodotto della loro complessità tecnica intrinseca, unita alla cortina di segreto industriale che le protegge dai concorrenti o da potenze straniere.
Le piattaforme sono “black box” anche per quanto riguarda la moderazione dei contenuti: da un lato perché riguarda direttamente il potere delle piattaforme di decidere cosa sia ammesso nei loro spazi e cosa no e, dall’altro, perché l’applicazione delle norme che stanno alla base di queste decisioni avviene spesso in modi iniqui, arbitrari, poco trasparenti specialmente quando queste decisioni sono prese in modo automatizzato e da altri algoritmi, la cui programmazione e progettazione è a sua volta ben poco trasparente.
La sfera pubblica privatizzata
La maggior parte di quello che sappiamo sulle dinamiche di moderazione dei contenuti su Facebook e le sue incongruenze è emerso grazie ai whistleblower. Questa scarsa trasparenza da parte delle Big Tech è profondamente problematica: queste aziende, infatti, non rispondono esclusivamente a imperativi economici e le loro azioni non si possono analizzare soltanto alla luce della loro natura for profit.
In modo sempre più cruciale infatti, Facebook, Google e le altre corporation simili sono diventate piattaforme sociali entro le quali fondamentali componenti del contemporaneo trovano spazio.
Questa visione dimentica che la sfera pubblica contemporanea non è più completamente “pubblica” ma è gestita, nella sua dimensione online, proprio da questi attori privati, un ruolo che dovrebbe attribuire loro delle responsabilità democratiche che ad altri settori industriali non competono direttamente. Un ruolo che, di conseguenza, imporrebbe alle aziende Big Tech un livello di accountability e responsabilità maggiori, ruolo cui spesso nella Silicon Valley si viene meno e con eccessiva leggerezza. Mentre la sfera pubblica si fa progressivamente più privatizzata, diventano quindi anche meno conoscibili le sue dinamiche. Possono queste essere amministrate come segreti industriali?
L’esistenza stessa di così tanti casi di whistleblowing dagli uffici della Silicon Valley è pertanto significativa perché proprio il whistleblowing è il sintomo diretto di un sistema che non funziona e di una trasparenza negata.
La filosofa Sissela Bok, che proprio alla segretezza ha dedicato parte importante del suo lavoro, ha descritto il whistleblowing come una conseguenza delle tensioni causate dall’occultamento della negligenza o degli abusi.
Il whistleblowing di Frances Haugen e Sophie Zhang, come quello delle altre persone che hanno contribuito allo stesso modo, è quindi un campanello di allarme che dimostra come l’inaccessibilità della Silicon Valley e la poca trasparenza del suo operato blocchi di fatto le possibilità di una discussone critica aperta e informata e, di conseguenza, ostacoli un accesso reale a informazioni che sarebbero altrimenti cruciali per il dibattito pubblico.
Il whistleblowing è inoltre sempre connesso alle asimmetrie informative del potere: quello esercitato dalla Silicon Valley sui propri spazi online ne è una forma inedita, sospesa a metà tra influenza economico-politica e simbolica, ed è allo stesso tempo basato sulla raccolta capillare di informazioni sui propri utenti.
Una “black box” è infatti anche questo: uno strumento in grado di registrare quanto avviene attorno a sé, senza lasciare però trapelare al contrario quasi nulla sul suo funzionamento. Il whistleblowing, più che qualsiasi altra operazione di trasparenza è fin qui stato lo strumento più efficace di “apertura” di queste scatole nere: solo dalla faglia generata da questa apertura passa una possibile regolamentazione delle piattaforme e una alternativa all’attuale status quo degli assetti di potere sul web.
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