- Dopo il flop di una decina di anni fa, gli investitori hanno rimesso al centro delle loro attenzioni le società tecnologiche che si occupano di sostenibilità
- Dai 14,9 miliardi di dollari investiti nel 2019 si è passati ai 53 miliardi del 2021: cifra che dovrebbe essere eguagliata nel 2022
- Dal cemento a emissioni zero al mais che resiste alle ondate di calore, fino alla cattura dell’anidride carbonica: quali tecnologie dimostreranno davvero tutte le loro potenzialità è però ancora una grande incognita
Già dieci anni fa, le startup del climate tech – che ricercano soluzioni tecnologiche per contrastare il cambiamento climatico – sembravano essere il cavallo giusto su cui puntare. Le cose, però, non andarono come previsto: anche le più promettenti società – come la tedesca Q-Cells, la statunitense Solyndra, la sudcoreana Hanwha e altre ancora – finirono infatti a gambe all’aria.
Tra le ragioni del flop di un settore che pareva sul punto di esplodere ci furono soprattutto – secondo l’analisi di TechCrunch – una recessione più duratura del prevista e il calo del prezzo del gas (che tra il 2008 e il 2012 scese dell’80 per cento). La domanda per i prodotti messi a punto o sperimentati dalle startup del climate tech (anche noto come “clean tech”) fu di conseguenza molto più bassa del previsto.
Nuovi investimenti
Adesso, però, questo settore sembra essere nuovamente al centro delle attenzioni degli investitori. Di alternative, d’altra parte, non ce ne sono molte: dopo anni di crescita inarrestabile, Big Tech sta attraversando un periodo particolarmente difficile e gli investimenti nelle startup digitali tradizionali (social network, e-commerce, finanza, ecc.) si stanno rapidamente prosciugando; mentre il mondo delle criptovalute e del web3 – protagonista indiscusso degli investimenti del 2021 – sta attraversando uno dei tanti momenti difficili della sua storia.
Insomma, le difficoltà altrui avvantaggiano il climate tech, su cui i venture capitalist stanno dirottando montagne di denaro: dai 14,9 miliardi di dollari investiti nel 2019 si è passati ai 53 miliardi del 2021. Cifra che dovrebbe essere eguagliata nel 2022: nonostante le difficoltà legate alla complicata fase economica e geopolitica, nei soli primi nove mesi dell’anno il climate tech ha infatti ricevuto finanziamenti per 37 miliardi.
Secondo un report di PwC, oggi oltre un quarto di tutti gli investimenti si sta riversando su startup attive nei settori delle auto elettriche, del cemento a emissioni zero, dell’idrogeno verde, delle tecnologie per la rimozione dell’anidride carbonica, della produzione di energia pulita, dell’innovazione agricola (per esempio, semi e piante che resistono alle temperature sempre più elevate) e altro ancora.
I dati
Nel complesso, negli ultimi sei anni sono sorti 47 unicorni (startup valutate oltre un miliardo di dollari) nel campo del climate tech, di cui 28 nel solo 2021. Sebbene gli Stati Uniti la facciano ancora da padrone (sono 26 gli unicorni a stelle e strisce), è di primo piano anche la presenza cinese (sette unicorni) e tedesca (cinque). Attenzione: alcune delle società incluse – a volte in maniera un po’ forzata – nel settore del climate tech potrebbero aver perso lo status di unicorno in seguito agli scossoni del mercato. È sicuramente ciò che è successo alla società di monopattini in condivisione Bird, le cui azioni hanno perso un incredibile 98 per cento del valore e la cui capitalizzazione è oggi di soli 40 milioni di dollari.
Le difficoltà dei mercati hanno comunque penalizzato soprattutto le società i cui modelli di business davano già parecchi motivi di scetticismo, e non sembrano invece aver intaccato le più serie e promettenti aziende del settore. È il caso della regina del climate tech: la svedese Northvolt, produttrice di batterie per auto elettriche che ha conservato anche in questi mesi difficili la sua valutazione da 12 miliardi di dollari e che sta diventando la società di riferimento di un settore di cruciale importanza.
Nel complesso è sempre il settore energetico (che comprende principalmente eolico, solare e batterie) quello su cui si punta maggiormente, tanto che nel terzo trimestre del 2022 ha conquistato circa 5,5 miliardi in finanziamenti (il 53 per cento del totale). La seconda area per investimenti – con 2,2 miliardi – è invece quella dei trasporti. A crescere rapidamente è però anche un campo al quale si tende a pensare poco: le costruzioni, capitanate dalle startup che si occupano della ricerca nel campo del già citato cemento a emissioni zero (quello brevettato a Cambridge sfrutta per esempio il riciclo dell’acciaio).
Il ruolo dei governi
Che lo sviluppo di soluzioni che mirano a salvaguardare il pianeta dipenda così fortemente dai cicli finanziari, e dalle conseguenti attenzioni degli investitori, fa una certa impressione; soprattutto perché fa temere che un peggioramento della situazione economica possa prosciugare i fondi: «Nessun settore nel mondo delle startup può essere a prova di recessione» ha per esempio spiegato Rajesh Swaminathan di Khosla Ventures. «Detto ciò, oggi c’è un senso di urgenza molto maggiore riguardo ai rischi climatici rispetto a dieci anni fa».
C’è anche chi vede il lato positivo del far dipendere così direttamente dal mercato la possibilità di individuare prodotti e servizi in grado di contrastare i cambiamenti climatici: «Durante un ciclo negativo, il mercato diventa molto più esigente. Di conseguenza, i nuovi arrivati devono raggiungere un’asticella parecchio elevata», ha affermato Pae Wu della società di investimenti Sosv. «In questo momento, c’è bisogno che ogni soluzione individuata sia in grado affrontare la magnitudine del problema che abbiamo davanti».
Non sembra sollevare timori nemmeno il rallentamento degli investimenti che si è avvertito nel corso del 2022, durante il quale si è passati dai 15 miliardi del primo trimestre ai 10 del terzo: «È comunque un quadro molto più positivo di quello finanziario generale», ha spiegato a Bloomberg l’analista Sarrah Raza. «Il calo degli investimenti potrebbe anche essere legato al fatto che, al momento, non ci sono abbastanza startup che stanno attraversando una fase in cui sono in cerca di finanziamenti».
Il rischio che vengano meno gli investimenti non sembra preoccupare anche per il ruolo che, in questo settore, giocano i governi: il nuovo pacchetto di leggi sul clima varato dall’amministrazione Biden prevede una spesa di 370 miliardi di dollari, di cui una parte sarà investita in agevolazioni e incentivi nel campo del solare e dell’eolico, oltre che per tecnologie ancora embrionali (ma sulle quali sono riposte enormi speranze) come la cattura di anidride carbonica direttamente dall’aria. Da parte sua l’Unione europea ha da pochissimo reso noto di essere intenzionata a spendere 5,6 miliardi di euro nel prossimo biennio per «trovare soluzioni innovative che riducano le emissioni di gas serra e per l’adattamento al cambiamento climatico».
Limiti e potenzialità
A questo punto, non resta che rispondere alla domanda più importante: davvero il climate tech può salvare il pianeta? Non è il caso di essere pessimisti, ma un recente studio – focalizzato però sull’adattamento dell’agricoltura al cambiamento climatico e pubblicato da due ricercatori di Harvard sul Quarterly Journal of Economics – raffredda i facili entusiasmi: «L’idea che la tecnologia riuscirà a mitigare appieno le conseguenze economiche del cambiamento climatico non sembra essere supportata dai dati che abbiamo”, ha spiegato uno degli autori, Jacob Moscona.
Le ragioni sono varie. Prima di tutto, le soluzioni studiate in campo agricolo funzionano solo in alcuni ambienti: «Il mais resistente alle ondate di calore progettato per aiutare i contadini del midwest statunitense non funzionerà appieno in India, dove i patogeni e i parassiti potrebbero essere completamente diversi». Più in generale, secondo le stime contenute nello studio, dagli anni Sessanta a oggi solo il 20 per cento dei danni economici potenziali causati dal cambiamento climatico sono stati mitigati grazie alle nuove tecnologie.
Una cifra che potrebbe anche scendere in futuro: da qui al 2100 i ricercatori stimano che solo il 13 per cento dei danni economici sarà mitigato grazie alle nuove tecnologie. Questa percentuale è però da prendere, per ammissione degli stessi autori, con le pinze: «Potrebbero esserci cambi di paradigma che rendono più facile, in futuro, limitare i danni. Per esempio, grossi cambiamenti negli strumenti biotecnologici potrebbero permetterci di creare una varietà di mais che può sopravvivere anche a fortissime ondate di calore». E limitare così i rischi di carestia.
Questo studio, come detto, si focalizza comunque sulle soluzioni per limitare i danni al settore dell’agricoltura. Più in generale, gli autori sottolineano che per contrastare il cambiamento climatico non potranno mai essere sufficienti «innovazioni che permettono di adattare la produzione agricola a fenomeni climatici sempre più estremi». La strada da seguire, affermano, è una soltanto ed è sempre la stessa: ridurre le emissioni. Anche sfruttando l’innovazione tecnologica.
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