-
È passato poco più di un anno da quell’agosto 2020 in cui decine di migliaia di bielorussi scendevano in piazza per protestare contro i risultati delle elezioni politiche. In quei giorni, fonti governative attribuivano all’eterno Lukashenko - al potere dal 1994 - l’80 per cento dei voti. Quasi un plebiscito: ottenuto però, secondo molti osservatori bielorussi e internazionali, truccando il responso delle urne.
-
Oggi gruppi di attivisti portano avanti una vera a propria guerriglia digitale, cercando di bypassare la propaganda ufficiale e di penetrare nei centri di potere dell’organizzazione statale, individuando abusi, misfatti, responsabilità.
-
Uno dei gruppi più attivi è quello dei Belarusian Cyber Partisans; una quindicina di attivisti che vogliono usare i cyber attacchi per paralizzare le forze di sicurezza di Lukashenko nel “giorno X”, quando la gente scenderà di nuovo in strada per protestare.
Vogliamo usare i nostri cyber attacchi per paralizzare le forze di sicurezza di Lukashenko nel “giorno X”, quando la gente scenderà di nuovo in strada per protestare. Abbiamo già realizzato molte operazioni di sabotaggio, rallentando il traffico ferroviario, disabilitando telecamere di sorveglianza, danneggiando intere reti di computer e cavi di comunicazione». Sembra la trama di un film di Hollywood ma è il piano di battaglia di un gruppo di attivisti bielorussi, i Belarusian Cyber Partisans, che in un periodo in cui è sempre più difficile e pericoloso manifestare a viso aperto, continuano la loro lotta nel cyberspazio.
Poco più di un anno fa decine di migliaia di loro connazionali sono scesi in piazza per protestare contro i risultati delle elezioni politiche. In quei giorni, fonti governative attribuivano all’eterno Lukashenko, al potere dal 1994, l’80 per cento dei voti. Era stato quasi un plebiscito: ottenuto però, secondo molti osservatori bielorussi e internazionali, truccando il responso delle urne. Oggi di quella fiamma di protesta rimangono soltanto le braci.
Migliaia di cittadini sono stati arrestati e picchiati. In centinaia, denunciano le Ong, sono stati torturati. Si susseguono i raid punitivi e intimidatori contro i giornalisti. Per questo motivo una serie di gruppi di attivisti hanno deciso di proseguire la lotta nel cyberspazio, dove è più facile operare al riparo da ritorsioni. Cercando di bypassare la propaganda ufficiale e di penetrare nei centri di potere dell’organizzazione statale, individuando abusi, misfatti e responsabilità. È una vera e propria “guerriglia” digitale.
Uno dei gruppi più attivi è appunto quello dei Belarusian Cyber Partisans: sono una quindicina di persone, meno di un terzo dei quali “hacker” che hanno iniziato a farsi conoscere hackerando alcuni siti governativi e inserendosi nelle trasmissioni dell’ente televisivo nazionale. Interrompendo i programmi per proiettare video delle violenze sui manifestanti.
Un aiuto dall’interno
Grazie anche all’aiuto di Bypol, un altro gruppo composto da ex ufficiali e funzionari governativi in rotta con l’attuale regime, i partigiani sono entrati in possesso di migliaia di file riservati. Secondo quanto affermato dagli attivisti, e verificato da testate come Bloomberg, Deutsche Welle e Technology Review, avrebbero a disposizione riprese video dai droni e dai centri di detenzione e tortura, ore e ore di conversazioni telefoniche riservate intercettate dai servizi segreti, i dati anagrafici di milioni di cittadini bielorussi estratti dai passaporti, compresi gli indirizzi e le foto dei complici del regime e di presunti perpetratori di violenze verso i manifestanti.
Queste informazioni sono state poi diffuse tramite il canale Telegram dei cyber partigiani, seguito da più di 78mila persone, su YouTube e attraverso siti come Blackmap.org, che fa parte anch’esso della galassia attivista.
«All’inizio solo pochi funzionari di sicurezza si preoccupavano che il loro nome venisse reso pubblico. Con il tempo, man mano che le nostre informazioni sono diventate più dettagliate, sempre più persone sono terrorizzate per le possibili conseguenze. Ci sono stati casi di servitori del regime (fra cui non pochi membri del comitato elettorale) che si sono rifiutati di andare a lavorare per paura di ritorsioni. Molti di loro ci hanno contattato e hanno chiesto di rimuoverli dalla lista che abbiamo diffuso», racconta via email a Domani un portavoce del gruppo, che per ovvi motivi preferisce restare anonimo.
È vera gloria?
Non si tratta di un genere di iniziativa totalmente inedito. In Turchia, ad esempio il gruppo di hacker di ispirazione marxista RedHack effettua da anni azioni di disturbo entrando nei database della polizia e del governo, defacciando siti web, rivelando informazioni scomode, fra cui un presunto caso di corruzione che vedrebbe coinvolto il genero del presidente Erdogan.
Azioni simili sono state effettuate da collettivi di cyber attivisti come Anonymous o hacker come quelli della Ukrainian Cyber Alliance. Il tentativo più ambizioso di usare la trasparenza come contraltare al potere è stato forse finora quello di Wikileaks, che ha diffuso decine di migliaia di documenti riservati.
Proprio il caso di Wikileaks spinge però a porsi qualche dubbio sul reale impatto della trasparenza quasi totale per un cambiamento sociale.
A fronte di uno straordinario accanimento nei confronti dell’organizzazione e del suo fondatore, e nonostante i documenti rivelati abbiano gettato una luce folgorante su avvenimenti come la guerra in Afghanistan, non è chiaro quanto questo abbia poi davvero influenzato le azioni dei soggetti interessati dai leak.
Il caso della cyber guerriglia bielorussa presenta però aspetti unici. In parte perché gli attivisti possono contare a quanto sembra, grazie a Bypol, su aiuti all’interno dell’apparato: non tutti i funzionari governativi disillusi avrebbero abbandonato la nave, alcuni sarebbero rimasti per sabotare il sistema da dentro.
In parte perché la divulgazione di informazioni per il movimento è solo il primo passo e dovrebbe fungere da supporto per future azioni sul terreno. Non da ultimo, l’Unione europea e i singoli governi possono basarsi sulle registrazioni e i video degli abusi commessi sui manifestanti per sanzionare il regime e lo stesso materiale potrebbe essere utilizzato, un domani, dai tribunali internazionali per giudicare eventuali crimini.
Il regime non sta a guardare
Anche se il governo bielorusso non ha mai ammesso i sabotaggi, non sono mancati accenni nei discorsi ufficiali. «Se non siete in grado di proteggere le informazioni nei vostri computer, allora scrivetele a mano e mettetele nei cassetti», pare abbia detto Lukashenko ai suoi ministri ad agosto. Poco prima, secondo quanto riportato dalla tv di stato, il capo dei servizi segreti avrebbe avvisato i sottoposti che “forze distruttive” legate a “servizi stranieri” stavano usando l’informatica per impossessarsi dei dati personali della leadership del paese, delle forze di sicurezza e di altri organi di governo. La controffensiva sembra essere già in atto.
Anche perché la gogna digitale è un sistema che può essere utilizzato da chiunque. Il sito Current Time ha raccontato come una serie di canali Telegram filo governativi abbiano fatto circolare una lista di imprenditori bielorussi che, in dissenso col governo, hanno spostato i loro affari in Lettonia e Lituania, sul territorio dell’Unione europea. Si trattava di informazioni mai rese pubbliche e comprendeva anche dati sulle famiglie degli imprenditori, esponendole a possibili rappresaglie. Gli attivisti devono inoltre concentrarsi sulla sicurezza dei loro membri e sforzarsi continuamente di rimanere anonimi.
«Incontriamo spesso hacker del governo che cercano di attirarci allo scoperto, per accedere a informazioni o individuare la nostra posizione. Finora hanno fallito, ma rimaniamo vigili perché il regime prova sempre nuovi metodi», dicono.
© Riproduzione riservata