C’è chi dice che una buona reputazione non la si può comprare, bisogna costruirsela col tempo. Forse poteva essere vero nel mondo pre-internet: in quello online le cose funzionano diversamente. Con gli strumenti e i contatti giusti, si può far vedere agli altri l’immagine di sé che più si predilige. E sempre più persone si regolano di conseguenza.

Questa evoluzione è frutto di due tendenze. Negli ultimi anni, si è visto come basti un post, un tweet o una foto, magari pubblicati anni prima, per distruggere carriere, matrimoni e in taluni casi, intere esistenze. Chi ricorda il caso di Tiziana Cantone, suicidatasi dopo la diffusione di un video privato? O quello di un 24enne di Parma, Alfredo Mascheroni, accusato ingiustamente di essere un pedofilo?

Negli ultimi tempi poi, la diffusa sensibilità “woke” e la cancel culture hanno accresciuto la necessità di presentare online un’immagine il più possibile immacolata.

Non basta vigilare su quanto si posta nel presente; occorre allargare lo sguardo a quanto fatto negli anni e perfino nei decenni precedenti. Ne sa qualcosa la ventisettenne Alexi McCammond, licenziata ancor prima di iniziare a lavorare come editor di Teen Vogue per dei tweet offensivi pubblicati dieci anni prima. O il musicista Eric Clapton: per stigmatizzarne le posizioni no-vax è stato riesumato un monologo razzista del 1976, pronunciato da ubriaco nel corso di un concerto.

Gli spazzini del web

Da qui il boom delle società che gestiscono e ripuliscono la reputazione online. Fra le più note: ReputationUp, Eliminalia, Reputation Manager, Status Labs, Profile Defenders.

In cambio di somme che vanno dalle poche centinaia alle decine di migliaia di euro, si occupano di trovare e far sparire ogni traccia compromettente. Tutto lecito e legale. Nelle mani di aziende e persone non troppo scrupolose, tale trattamento ha anche però qualche possibile controindicazione: in primis che anche i potenti con qualche scheletro nell’armadio possono, dietro compenso, permettersi una fedina cibernetica pulita.

Altro aspetto problematico da segnalare, è che il rapporto fra diffamatori e “spazzini” del web non è sempre lineare. Esistono zone grigie, dove non è sempre facile capire se le due categorie siano in contrasto fra loro o se, invece, il loro interesse collimi (a spese del cliente). In casi limite, si può parlare di connivenza.

Celebre, a questo riguardo, un’inchiesta del New York Times di qualche tempo fa sull’industria della diffamazione. Indagando su un sottobosco di siti come BadGirlReports.date, BustedCheaters, DirtyScam, che pubblicano post in cui si denunciano (con tanto di foto) presunti malfattori, fedifraghi e molestatori, notarono un fatto curioso.

Accanto ai messaggi ingiuriosi, vengono reclamizzati i servizi di aziende che aiutano a rimuovere questo tipo di contenuti. Scavando un po’, scoprirono che dietro entrambi i soggetti si celavano molto spesso le stesse persone, oppure persone diverse, ma in contatto fra loro.

Diventava così facile, per i ripulitori, soddisfare velocemente le richieste di voleva veder rimosso un post. Che di solito però riappariva dopo qualche tempo su un sito affine, costringendo il cliente a pagare di nuovo per cancellarlo. Dopo l’inchiesta del Times, le cose sono un po’ migliorate. Google ha preso provvedimenti e ora la maggior parte di questi siti non sono più indicizzati dal motore di ricerca; cercando il nome di una persona, non appaiono più fra i risultati. Sono comunque ancora accessibili tramite link diretto.

A torto o ragione

Non sempre i contenuti che gettano ombre sulla reputazione di aziende e persone sono falsi e creati ad hoc dall’industria della diffamazione. A volte fanno riferimento a eventi reali, misfatti commessi da normali cittadini o persone in vista.

Occorre allora prestare attenzione che dietro l’opera di ripulitura non si nasconda il tentativo di censurare contenuti scomodi. Magari sfruttando strumenti creati per altri scopi, come quelli per la tutela del copyright o della privacy.

Quirium, una società che fornisce spazio web a organizzazioni per i diritti umani e siti di informazione indipendenti, ad esempio, ha raccontato di essere stata contattata da uno strano personaggio che si spacciava per funzionario dell’Unione europea e che chiedeva la rimozione di un’inchiesta per violazione della Gdpr. Solo che a uno sguardo più approfondito saltavano fuori parecchie incongruenze. L’indirizzo del mittente non corrispondeva a uffici della Ue, ma uno spazio di coworking di Bruxelles.

Inoltre, analizzando i metadati della email gli esperti di Quirium sono risaliti a un dominio web che sembrerebbe creato ad hoc dalla società di reputation management Eliminalia (quest’ultima nega le accuse). Di fronte a una lettera del genere, molti fornitori di hosting per internet preferiscono non impegolarsi in questioni legali e oscurare il sito per evitare problemi.

Nel caso della presunta violazione di copyright, la tecnica è semplice. Si creano una serie di finte testate giornalistiche online e si ricopia l’articolo che si intende prendere di mira. Poi si retrodata la pubblicazione del clone del pezzo, intervenendo sul codice del sito, e si inoltra un reclamo a Google, ai sensi del Digital Millenium Copyright Act, sostenendo che l’articolo originale è in realtà un plagio.

CLONARE E NASCONDERE

Si punta a far sì che l’articolo in questione venga, se non rimosso, perlomeno de-indicizzato da Google, risultando non più disponibile nei risultati di ricerca. A volte invece si clonano interi siti, e ripubblicano sotto altri nomi, intervenendo chirurgicamente sulla copia per eliminare solo quello che dà fastidio. In mezzo a tanti prodotti contraffatti, diventa difficile distinguere l’originale, e cogliere la differenza.

Secondo documenti ottenuti dal sito Rest of the World tecniche simili sarebbero state utilizzate per ripulire l’immagine di politici e uomini d’affari dei paesi in via di sviluppo.

Come l’ex ministro degli esteri della Repubblica Dominicana, Miguel Octavio Vargas Maldonado, di cui sarebbero stati “cancellati” diversi articoli che sollevavano dubbi sulle modalità con cui raccoglieva finanziamenti (e sulla fedina penale di alcuni donatori); o imprenditori come Diego Adolfo Marynberg, legato all’estrema destra israeliana e sospettato di aver aiutato il dittatore venezuelano Maduro a sottrarre più di un miliardo di dollari dalle casse dello Stato.

Avrebbero utilizzato i servizi di Eliminalia anche diversi individui coinvolti nello scandalo dei Panama Papers, il leak di documenti riservati che hanno mostrato come l’élite mondiale nasconda i propri soldi nei paradisi offshore.

Un reality senza sbavature

Dietro la voglia di rendersi più presentabili su internet non si nascondono per forza solo oscuri segreti. Per gli influencer, curare la propria immagine è indispensabile per ragioni commerciali, per vendere ai fan la favola di un’esistenza perfetta, priva di sbavature.

È la logica che ha spinto la 38enne americana Khloe Kardashian, 220 milioni di fan su Instagram, a ingaggiare una lunga battaglia legale per rimuovere da internet una foto priva di filtri e troppo realistica.

O che spinge altri super ricchi a servirsi di “piattaforme di gestione del profilo digitale” come The Marque, che per somme che vanno dai 4mila ai 15mila euro l’anno si occupa di eliminare eventuali minacce alla reputazione del cliente e ne promuove attivamente un’immagine positiva.

Mostrare solo il meglio di sé può servire a chiunque: per fare bella figura coi selezionatori quando ci si candida per un lavoro, per avere maggiori chance di combinare un appuntamento su un sito di incontri, per non attirare commenti malevoli e attacchi social. E va detto che per rimuovere contenuti non lusinghieri, i cittadini europei hanno un’arma in più: “il diritto all’oblio”, ovvero il diritto, sancito dalla legge, di ottenere la rimozione dai motori di ricerca di informazioni obsolete, lesive della dignità o non più accurate.

Colpisce però la sproporzione fra chi ha le risorse, sia che economiche sia di status, per assicurarsi un’immagine adeguata e nascondere eventuali magagne, e tutti gli altri. In teoria, l’immensa abbondanza di informazioni presenti sul web dovrebbe consentire a chiunque di farsi una prima impressione su un potenziale datore di lavoro, su un dipendente, un esponente politico o uno spasimante. Invece, il mondo online assomiglia sempre più a un reality show: finto, ma costruito ad arte per sembrare vero.

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