Sharenting è il neologismo per chi posta senza prudenza: si fa per orgoglio, per narcisismo, per ingenuità. Ma i tribunali italiani stanno iniziando a dar ragione a chi da maggiorenne reagisce e denuncia i propri genitori
Tu, sul vasino – e già sarebbe l’orrore. Ma anche tu con la faccia impiastricciata di gelato. Tu che piangi a dirotto perché, a 4 anni, i regali di compleanno non ti erano piaciuti. Tu che cominci la scuola, tu che dormi ovviamente come un angelo, tu in costumino.
Tu che ancora non ci sei, ma la tua prima ecografia già fotografa i battiti del tuo cuore: evviva, è la tua “digital birth”, nascita digitale, questa te la spieghiamo più avanti. Tu col tuo primo amore, tu con i brufoli. Tu sui tuoi primi sci, ma a quanto pare sei negato. Tu, schienato dal cuginetto.
Che tenerezza – per i tuoi genitori. Che fastidio, imbarazzo, rabbia forse, per te quando sarai cresciuto. Quando sarai un po’ meno trottolino amoroso e molto più adolescente ombroso. E quel dossier digitale che i tuoi ti hanno cucito addosso - un post dietro l’altro, un anno dopo l’altro - quel tuo avatar minuscolo, inopportuno e lezioso, te lo vorresti togliere di torno, ma non si può. Come vi è venuto in mente, vorresti chiedergli. Eri così carino, potresti sentirti rispondere.
Si chiama sharenting e non è una bella cosa. Viene da share + parenting, condividere + genitorialità.
L’Oxford English Dictionary l’ha inserita come nuova parola nel 2022: indica l’abitudine dei genitori di oggi di postare a man bassa sui social media foto e video dei figli più o meno in qualunque situazione, magari spensieratamente accompagnati da indicazioni di nomi, età e posti in cui vivono.
Lo fanno in particolare le mamme, e soprattutto quando i bambini hanno da 0 a 3 anni, poi la smania di condividere avventure e facce buffe dei piccoli si placa un minimo.
Nel frattempo, il dossier digitale su praticamente ogni bambino della generazione Alpha (quelli nati dal 2010 in poi) si arricchisce di dettagli. Nel migliore dei casi, solo imbarazzanti. Nel peggiore, pericolosi.
Non solo i Ferragnez
Ogni anno, secondo uno studio europeo riportato dalla Società Italiana di pediatria, i genitori in media condividono online, tra Facebook, Instagram e Twitter, trecento foto riguardanti i figli. Prima del quinto compleanno siamo arrivati a mille, una più una meno.
The Journal of Pediatrics a gennaio riportava questi dati: 4 bambini su 5, nei paesi occidentali, hanno una presenza online prima dei due anni, uno su tre già a poche settimane di vita. Sarebbe bello pensare che soltanto i Ferragnez ci fanno sapere tutto o quasi, su Instagram, di Leo e Vitto, ma non è così.
Perché i genitori sono “malati” di sharenting? Per orgoglio di mamma e papà (mamma e mamma, papà e papà - è lo stesso). Per un po’ di narcisismo. Per una dose sconcertante di ingenuità e/o inconsapevolezza. Ciascuno dei fattori di per sé è un peccato veniale, ma il mix è micidiale, e il risultato un paradosso: nelle società più evolute ai genitori sembra essersi attenuato il primo tra gli istinti, quello alla protezione dei propri cuccioli.
Perché si corrono e fanno correre diversi rischi, a postare materiali sui bambini. In primo luogo, si mette a rischio la loro privacy – già tre anni fa un’indagine svedese rivelava che i bambini avrebbero voluto gli fosse chiesto il permesso, prima di fargli foto e condividerle. Li si espone poi al rischio di finire in pessime mani: secondo un report dell’eSafety Commissioner australiano, prima agenzia governativa al mondo dedicata a «tenere al sicuro le persone online», la metà circa dei materiali presenti su siti pedopornografici proviene da social media dove prima erano stati caricati da utenti inconsapevoli che i contenuti possono essere scaricati non solo da amici, ma anche da amici di amici ed estranei.
Serve dire che è una pessima idea mettere foto dei piccoli in parziale o totale nudità? Serve ricordare che non ci vuol molto a realizzare fotomontaggi pornografici “ritagliando” le faccine dei bimbi dai post dei genitori?
Altro rischio sottovalutato: quello che oggi è carinissimo, un giorno potrà apparire ridicolo e diventare motivo di bullismo da parte di compagni di scuola o altri, o risultare addirittura un handicap in colloqui di lavoro e test di ammissione all’università.
Save the Children avverte: l’eccessiva divulgazione di informazioni amplifica l’impatto della diffusione e la perdita di controllo sui contenuti, tracce digitali vanno a sedimentarsi in rete e diventano parte dell’identità digitale dei ragazzi.
Che ha effetti concreti sul loro futuro, considerando permanenza dei contenuti online e possibilità di essere a disposizione di chiunque; dalle ripercussioni psicologiche (quando cominceranno a navigare da soli e dovranno fare i conti con l’essere stati esposti pubblicamente con immagini su cui non hanno effettuato né scelte né consensi) al rischio di adescamento, perché dati come passioni, sport amati, scuola frequentata e abitudini, se narrati online, offrono materiale utile ad avvicinarli.
Nel caso il quadro non fosse abbastanza inquietante, uno studio Barclays dà l’allarme su un altro pericolo: quello del furto di identità, reso possibile da sharenting disinvolto che divulghi per esempio nome completo e luogo in cui vive il bambino.
Secondo Barclays Bank, infatti, caricare indiscriminatamente contenuti multimediali con protagonisti i minori sarà causa di due furti d’identità su tre su quelli che i giovani affronteranno entro il 2030. E cioè: 7,4 milioni di casi, per un costo di 667 milioni di sterline (777,20 milioni di euro), ogni anno da qui ad allora.
L’aspetto legale
Ci vorrebbe una legge. C’è e non c’è. In Francia una proposta di legge intende limitare la diffusione delle immagini dei minori sul web limitando la libertà dei genitori di farlo. In Italia non c’è una legge specifica ma sentenze che hanno dato ragione a ragazzi che, maggiorenni, hanno denunciato i genitori.
Il Tribunale di Mantova ha condannato nel 2017 una madre che rifiutava di eliminare dai social le immagini della figlia e stabilito che postare foto dei figli «integra violazione della tutela dell’immagine» (articolo 10 del Codice civile), della tutela della riservatezza dei dati personali prevista dal Codice della privacy, e della Convenzione di New York.
Nel 2021, il Tribunale di Trani si è pronunciato invece su una madre separata che aveva pubblicato video della figlia di 9 anni su TikTok, disponendone la rimozione d’urgenza e condannando la madre a pagare 50 euro per ogni giorno di violazione e di ritardo nell’esecuzione (il denaro dovrà essere versato su un conto corrente intestato alla minore).
A oggi in Italia, secondo il Codice della Privacy e queste sentenze, il limite di età per il consenso digitale è fissato a 14 anni. Nel frattempo, i figli dell’era di Facebook stanno crescendo. Si preparano a entrare nel mondo del lavoro. Peccato ci trovino già accomodato l’avatar digitale nutrito con amore dai genitori.
La mamma dell’americana Caymi Barrett, 24 anni, ha postato le foto di lei piccola che faceva il bagnetto, lei che si prende un’infezione da stafilococco, la confidenza che è stata adottata, perfino il suo primo ciclo.
Lo stress di veder spiattellata la sua vita in Rete ha fatto di Caimy un’attivista dei diritti alla privacy dei bambini. Però, se la googli, la prima cosa che appare è un tweet di Suzanne Studnicka-Barrett, @CaymizMomma, che si descrive così: Proud Mom of Caymi, my daughter, the greatest gift from God, love of my life. Buona fortuna, Caymi, la forza sia con te.
© Riproduzione riservata