Come ha notato l’epistemologo Aharon Kantorovich, esiste una analogia tra evoluzione biologica ed evoluzione della scienza: il bricolage.

Pur senza alcuna intenzionalità, né premeditazione né finalismo, anche il processo biologico di trasformazione e adattamento segue un modello di benefici imprevisti e di soluzioni anticipate.

Spesso accade che una struttura o un comportamento, evoluti in relazione a funzioni adattative primarie oppure rimasti come effetti collaterali non funzionali e residui di altri cambiamenti, risultino utili, al mutare delle circostanze ambientali, nell’assolvimento di funzioni completamente diverse e indipendenti. Dalle ali ai polmoni, dalle nuove funzioni di vecchi geni sino al riuso plastico di molte aree del nostro cervello: l’origine storica di un tratto e di un organo raramente coincide con la sua funzione attuale.

L’evoluzione è rimaneggiamento, variazione sul tema. Anche se purtroppo in letteratura scientifica viene ancora chiamato preadattamento (termine intriso di finalismo, come se un tratto fosse già lì in attesa di essere sfruttato, preadattato allo scopo), questo fenomeno si chiama exaptation, cioè riuso ingegnoso e opportunistico di strutture già esistenti, evolute con altre funzioni o senza alcuna funzione.

Realtà eccedente

Il processo evolutivo, insomma, fa di necessità virtù. La selezione naturale non riparte ogni volta da zero, bensì dal materiale a disposizione, con i suoi vincoli e la sua storia. Il risultato del bricolage quindi non sarà ottimale, ma un compromesso artigianale tra esigenze differenti. Soprattutto, un organismo può acquisire vantaggi inattesi, non originariamente coinvolti nel processo adattativo, attraverso lo sfruttamento di opportunità già esistenti, in modo plastico e flessibile.

Detto altrimenti: ciò che è funzionale adesso ha in realtà una gamma di effetti potenziali, molti dei quali oggi del tutto sconosciuti e imprevedibili, proprio come la scoperta serendipitosa.

Basti pensare, come ha notato Richard E.F. Leakey, alle conseguenze exattative a cascata dell’andatura bipede umana: un intero insieme di nuovi comportamenti e caratteristiche (liberazione degli arti superiori, flessibilità locomotoria, restringimento del canale del parto, e così via) fu reso possibile da un adattamento posturale precedente, dovuto a tutt’altre ragioni, termoregolatorie, a loro volta innescate da un cambiamento climatico e ambientale contingente. La specie umana, compreso il suo cervello, è un’enciclopedia di exaptation.

Ebbene, così sembra funzionare anche la nostra mente alle prese con una realtà abbondante: cerca qualcosa, animata da una certa intenzione, e poi trova tutt’altro, come se l’indagine di una realtà eccedente garantisse al nostro percorso di ricerca, immerso com’è in un vasto ignoto, un potenziale latente di scoperte serendipitose impreviste.

Esiste insomma un opportunismo serendipitoso sia nell’evoluzione sia nella cognizione, perché la mente dello scienziato intraprende il suo viaggio di esplorazione, come i tre principi di Serendippo, con un solido bagaglio di competenze, abilità, metodi, sogni, ambizioni, credenze, domande.

Quell’equipaggiamento, confrontandosi e scontrandosi con la realtà empirica, diventa un magazzino di exaptation potenzialmente applicabili. Come ha sostenuto più volte il neurobiologo Jean-Pierre Changeux e come scriveva lo storico della scienza Enrico Bellone in Molte nature: «Ogni scienziato lavora nel bricolage» attingendo da risorse molteplici e «il suo cervello è un generatore di innovazioni che debbono poi sottostare al tribunale della selezione».

Se là fuori esiste una realtà abbondante, una realtà traboccante di possibilità, senza vie maestre ma con molte strade percorribili, allora può essere esplorata in direzioni inaspettate, quelle direzioni che tutti gli altri non vedono in quel momento perché focalizzati su una realtà più piccola.

Forse così si chiarisce il fatto paradossale per cui ogni volta che scopriamo qualcosa in più è come se perturbassimo quell’ignoto, lo scuotessimo e facessimo emergere nuove domande, uscendone con l’impressione di essere ancora più ignoranti quando in realtà ne sappiamo sempre di più.

L’ignoto, come una quantità apparentemente inesauribile, non sembra eroso dall’avanzare delle nostre conoscenze, ma al contrario sembra risuonare con esse, come se ogni finestra aperta rimandasse a nuove finestre da aprire. Da qui la constatazione che i punti di domanda, con il passare del tempo, aumentano anziché diminuire.

Slancio immaginativo

Ora chiediamoci: la natura è molto più grande della nostra conoscenza, d’accordo, ma è più grande anche della nostra immaginazione? È lecito dubitarne, e così arriviamo alla nostra serendipità finale.

Popper ha sostenuto che, nel rapporto tra noi e la nostra immensa ignoranza, lo scienziato creativo riesce ad autotrascendersi attraverso la critica immaginativa: «Questo è il modo in cui trascendiamo il nostro ambiente locale e temporale cercando di pensare circostanze oltre la nostra esperienza: cercando di trovare, costruire, inventare e anticipare nuove situazioni – vale a dire situazioni di prova, situazioni critiche – e cercando di localizzare, determinare e sfidare i nostri pregiudizi e le nostre assunzioni abituali».

È il mestiere dello scienziato-pittore di Hadamard, che prima dipinge il paesaggio immaginato sulla tela e solo dopo apre la finestra.

Il bricolage evolutivo della scienza ci àncora all’esistente, alla continuità tra il gigante e il nano sulle sue spalle: giochiamo con i mattoni che esistono già e troviamo combinazioni inaspettate che diventano soluzioni in cerca di problemi. Lo slancio immaginativo, altra componente della mente preparata alla serendipità, ci spinge invece verso la rottura, la novità.

Continua Popper: «In questo modo ci eleviamo da soli fuori dalla palude della nostra ignoranza, in questo modo tiriamo una fune in aria e ci arrampichiamo su di essa, sperando che essa faccia presa, anche soltanto in modo precario, su qualche piccolo ramo».

La fune di Popper trova appiglio nel «mondo 3» delle idee, della discussione critica, dei costrutti mentali, cioè dell’evoluzione culturale che interagisce con quella biologica. Se siamo fortunati, potremo sopravvivere ad alcune delle nostre teorie sbagliate, sempre per mezzo della messa alla prova di possibilità serendipitose concepite nella nostra immaginazione.

Come ha scritto Peter Medawar, la scienza non è un inventario di fatti: è un’attività immaginativa ed esplorativa. Basti pensare al ruolo degli esperimenti mentali, dalla nave di Galileo agli ascensori in caduta libera di Einstein.

Lo scienziato deve avere intuizione, produrre idee, teorie, ipotesi, da sottoporre ad attività analitica e critica di controllo. Ci vuole immaginazione sia nella ricerca di base sia in quella applicata, perché non esiste un’osservazione pura che non sia già intrisa della teoria che ha formulato quella specifica domanda alla natura.

Un’ipotesi scientifica, dopo tutto, è un preconcetto immaginativo su cosa potrebbe essere vero, una teoria allo stato larvale: proporla richiede responsabilità, non è un esercizio gratuito.

La formulazione di leggi generali, prosegue Medawar, comincia con uno sforzo immaginativo: «La scienza vivrà finché continueremo a possedere una facoltà che non dà segno alcuno di indebolimento: la capacità di immaginare, sia pure in forma imperfetta e rudimentale quanto si voglia, quale possa essere la verità; e finché conserveremo contemporaneamente la disponibilità a verificare se quanto abbiamo immaginato corrisponda o meno alla realtà».


Il testo è un estratto dal libro di Telmo Pievani Serendipità. L’inatteso nella scienza, edito da Raffaello Cortina editore

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