- Il Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati, sancisce che per avere un account sia necessario aver compiuto 16 anni, con la possibilità lasciata ai singoli stati di scendere al massimo fino a 13.
- Ma negli Stati Uniti, il 40 per cento dei ragazzini di età inferiore avrebbe già un account Instagram. In Italia, addirittura l’88 per cento dei ragazzini sotto la soglia minima sarebbe già sui social.
- Davvero possiamo consegnare alle piattaforme i dati personali dei minori? E se invece di pensare a divieti rafforzassimo e rendessimo più efficace l’educazione al digitale?
Tredici, quindici o chissà quanti anni. Qual è l’età giusta per stare sui social? A livello internazionale, il panorama giuridico è vario. Il Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati, sancisce che per avere un account sia necessario aver compiuto 16 anni, con la possibilità per i singoli stati di scendere al massimo fino a 13.
Le nazioni europee si sono variamente adeguate alle disposizioni: in Germania, la soglia è rimasta fissata a 16 anni, con la possibilità di derogare al massimo di due anni con il consenso dei genitori o dei tutori legali. In Francia, è in dirittura d’arrivo una proposta di legge che stabilisce l’età minima a 15 anni. In Italia, per prestare il consenso all’utilizzo dei propri dati personali – e quindi anche per aprire un profilo su Instagram, TikTok e gli altri – siamo scesi a 14 anni.
Nel resto del mondo la situazione è simile. Anche in Cina l’età minima è di 14 anni, negli Stati Uniti è di 13, in Giappone si va dai 13 ai 16 anni a seconda dei social. Come noto, inoltre, quasi tutte le piattaforme non accettano, in linea teorica, utenti al di sotto dei 13 anni.
Con tutte le differenze del caso, la situazione è abbastanza chiara: in linea di massima, si ritiene che l’utilizzo dei social – soprattutto senza il consenso e magari anche la supervisione dei genitori – non dovrebbe avvenire prima dell’adolescenza.
La fine dell’infanzia
Che la scelta dell’età sia legata a questo elemento è particolarmente chiaro proprio con l’esempio francese. Come ha spiegato il deputato Laurent Marcangeli, uno dei firmatari della proposta di legge, i 15 anni corrispondono all’età del consenso sessuale e al passaggio dalle scuole medie alle superiori, la transizione quindi dall’infanzia alla maturità.
Ovviamente, non può esserci un’età giusta per chiunque. Il grado di maturità dei ragazzi e delle ragazze è variabile, anche in considerazione del fatto che alcuni aspetti problematici dei social colpiscono soprattutto le persone in età avanzata, com’è nel caso delle fake news, considerate credibili soprattutto dagli utenti con più di 65 anni.
Nonostante tutto ciò, come già avviene con il voto e la patente, è inevitabile che la politica e la società civile ritengano necessario fissare un’età minima per l’accesso ai social, delegando in alcuni casi la decisione ai genitori o ai tutori. Pensare però che basti fissare una soglia per impedire di crearsi un profilo TikTok è un’illusione.
Come riportato dalla docente Carmelina Maurizio su Cybersecurity 360, in Francia il 58 per cento delle persone tra gli 11 e i 12 anni ha almeno un account social. Negli Stati Uniti, il 40 per cento dei ragazzini con età inferiore a 13 anni avrebbe invece un account Instagram. In Italia, addirittura l’88 per cento dei ragazzini con età inferiore a 13 anni sarebbe già sui social: un dato che – se confermato – dimostrerebbe la completa inutilità di fissare per legge un’età, senza che le piattaforme possano verificarla. Una complessità su cui torneremo più avanti.
I rischi e le potenzialità
La facilità e la frequenza con cui anche ragazzini e ragazzine in giovanissima età riescono ad accedere ai social non è privo di aspetti problematici. Come ha affermato il capo dell’autorità sanitaria statunitense Vivek Murphy, i social network possono rappresentare un “grave rischio” per la salute mentale degli adolescenti, soprattutto in termini di cyberbullismo, contenuti inadatti e privazione del sonno.
Niente di nuovo: una ricerca interna proprio di Meta, emersa nel corso dello scandalo del 2021 battezzato Facebook Papers, segnalava come un adolescente su tre (sia maschio sia femmina) dichiarasse di avere un rapporto problematico con Instagram, mentre il 32% delle ragazze affermava che questo social peggiorasse il rapporto col proprio corpo (contro un 22% convinto che contribuisca invece a migliorarlo).
Più in generale, si leggeva sempre nello studio, «gli adolescenti che non sono soddisfatti delle loro vite affermano di essere negativamente influenzati da questo social network».
Tutto ciò, per quanto preoccupante, rappresenta soltanto una faccia della medaglia. Come ha spiegato alla CNBC lo psicologo Mitch Prinstein (capo scientifico della American Psychological Association), «gli adolescenti utilizzano queste piattaforme anche per il loro sviluppo sociale, per fare attivismo e per fare esperienza di forme di rappresentazione del sé, seguendo o facendo amicizia con persone con cui condividono un’identità sottorappresentata».
La presenza in rete è ormai parte integrante della nostra esperienza sociale. Impedire ai giovani di prendere parte ai discorsi politici, ambientalisti, di genere e altro ancora, rischia di impedire loro anche di approcciarsi già in giovane età all’impegno civile, politico e sociale.
D’altra parte, è anche (se non soprattutto) tramite i social che realtà importanti come i Fridays for Future hanno potuto strutturarsi e farsi conoscere.
Anche volendo ignorare questi aspetti, e decidendo quindi che la bilancia penda verso la necessità di sottrarre i giovani dai potenziali pericoli presenti sui social network, come possono le varie piattaforme verificare effettivamente l’età dei loro iscritti ed evitare – come abbiamo visto – che i limiti vengano aggirati semplicemente indicando un’età diversa da quella che realmente si ha?
La politica e il caso Ferragni
Contestualmente alla proposta di vietare i social ai minori di 15 anni, seguita alla polemica tra Chiara Ferragni e la ragazzina di 11 anni che ne ha criticato un’immagine postata su Instagram, il leader di Azione Carlo Calenda ha dichiarato come fosse secondo lui necessaria l’introduzione di «un meccanismo di verifica dell’identità».
Una proposta che riemerge ciclicamente ma che in realtà è piena di criticità. Davvero possiamo consegnare alle piattaforme social – che più volte nella loro storia hanno abusato delle nostre informazioni private – i dati personali dei minori? È giusto impedire, agli adolescenti che non vogliono esporsi pubblicamente, di usare i social in forma anonima, magari per esprimere un’identità di genere non conforme alla norma? Quali sono i rischi legati alla possibilità – davvero così remota? – che i governi e le forze dell’ordine sfruttino questo sistema di verifica per sorvegliare l’attività social degli attivisti più giovani?
Più che puntare esclusivamente su divieti e controlli, forse è necessario lavorare di più sulla consapevolezza e sull’educazione all’uso dei social e delle nuove tecnologie in generale, insegnando con i giusti strumenti e le giuste competenze, senza paternalismi e banalità, un utilizzo corretto e sano di queste piattaforme, che non presentano solo problematiche, ma hanno anche enormi potenzialità.
Invece di limitarsi a imporre soglie di età e verifiche dell’identità, serve rafforzare quella che, oggi, è parte integrante dell’educazione civica: l’educazione al digitale.
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