Don’t be evil. “Non essere cattivo”. Per anni è stato questo lo slogan di Google: una sorta di promessa del colosso di Mountain View nei confronti dei suoi utenti, con la quale s’impegnava a non comportarsi male e a non abusare del proprio potere. Ma come possiamo essere sicuri che Google – o qualunque altro colosso digitale – mantenga le promesse? Perché dovremmo fidarci?

Google, d’altra parte, potrebbe teoricamente sfruttare l’algoritmo del suo motore di ricerca per favorire un politico compiacente rispetto a un altro meno gradito. E lo stesso vale per Facebook, che potrebbe per esempio diffondere ovunque notizie che giudicano positivamente una legge favorevole al social network di Mark Zuckerberg. Allo stesso modo, Spotify potrebbe penalizzare un artista che si è lamentato troppo rumorosamente dei bassi compensi elargiti dal servizio di streaming svedese.

Esempi solo teorici, che però dimostrano come un’azienda non dovrebbe limitarsi a promettere di non comportarsi male, ma dovrebbe essere messa nelle condizioni di non poterlo fare; magari tramite una legge che la obblighi a rendere pubblico il proprio algoritmo o almeno dando la possibilità agli utenti delusi di boicottarla. Una pratica, quella del boicottaggio, temuta da quasi tutte le imprese, ma non dai colossi della Silicon Valley. Come mai?

Costruire un monopolio

Il problema sta in larga parte nel modo in cui Facebook, Google, Spotify e tutti gli altri prendono interamente possesso dei nostri dati. Come mai Facebook non ha subìto alcun contraccolpo in termini di base utenti in seguito a uno scandalo come quello di Cambridge Analytica? Probabilmente perché, se volessimo trasferirci su un teorico concorrente di Facebook, dovremmo ricostruire da capo la nostra rete di contatti e rinunciare a foto, video, ricordi, post e quant’altro. Non una decisione semplice quanto può esserlo boicottare una marca di detersivi per premiarne una più ecologica.

Lo stesso vale per Spotify: come potremmo punire delle decisioni aziendali che non apprezziamo, sapendo che passare a un servizio concorrente significherebbe dover ricostruire da zero la nostra libreria, ricreare le playlist e ricominciare a insegnare all’algoritmo i nostri gusti? È soprattutto così che si creano i monopolî (o meglio, oligopolî) verticali: facendo incetta dei nostri dati, diventandone proprietari e ostacolando la nascita di concorrenti.

Blockchain

E se invece il controllo dei dati fosse in mano nostra e potessimo muoverli per la rete liberamente, alle nostre condizioni? È qui che entra in gioco la blockchain – la tecnologia alla base dei bitcoin, ma le cui potenzialità si estendono molto al di là delle criptovalute – e la possibilità di utilizzare il registro distribuito per dare vita a quello che gli esperti chiamano “internet 3.0”. Partiamo dalla teoria: se una qualunque piattaforma funzionasse tramite blockchain, significherebbe che invece di appoggiarsi a data center di proprietà dell’azienda vivrebbe sulla moltitudine di computer che hanno deciso di partecipare alla rete decentralizzata (in gergo detti “nodi”). Sfruttare la blockchain potrebbe inoltre dare a ciascun utente della piattaforma la possibilità di mantenere il possesso dei propri dati, decidendo così a chi cederli, a quali condizioni e potendone sempre reclamare il possesso.

Concretamente, questo significa che un equivalente di Spotify su blockchain non potrebbe decidere unilateralmente di eliminare dal sistema un artista sgradito, ma dovrebbe prima interpellare tutti i nodi che partecipano alla blockchain e ottenere il consenso della maggioranza. Allo stesso modo, se fossimo delusi da un “social network distribuito”, potremmo teoricamente recuperare tutti i nostri dati e trasferirli su un’altra piattaforma di nostro gradimento, eliminando una parte cruciale della barriera che oggi rende estremamente difficile abbandonare un social.

Un sistema quindi maggiormente democratico e che restituisce una parte del potere agli utenti. La buona notizia è che esistono numerosi progetti – quasi tutti però sperimentali o adottati solo da una piccola nicchia di utenti – che sfruttano la blockchain proprio per restituire il controllo dei dati agli utenti, per adottare un sistema maggiormente democratico e a volte anche per creare un nuovo ecosistema economico (sfruttando le criptovalute). Uno degli esempi più noti è quello di Filecoin, una sorta di “Dropbox decentralizzato” che permette a tutti gli utenti che partecipano al network di offrire lo spazio libero dei loro hard disk in cambio di un incentivo economico, il tutto automatizzato tramite blockchain e sfruttando un’apposita criptovaluta.

Brave e gli altri

Il progetto probabilmente di maggiore successo che si basa su questi principi è invece Brave, il browser attento alla privacy fondato dall’ex sviluppatore di Mozilla Brendan Eich. Oltre ad avere un adblocker (lo strumento che blocca la pubblicità) integrato nel browser stesso e a impedire ogni forma di tracciamento, Brave ha introdotto un innovativo sistema che permette di guadagnare semplicemente guardando delle pubblicità che ci vengono proposte e, volendo, di utilizzare questo denaro – sotto forma dell’apposita criptovaluta Bat – per ricompensare i vostri siti internet preferiti (se abilitati). In Italia l’economia legata a questo browser è ancora estremamente ridotta; ciononostante, Brave è uno degli esempi più lampanti di come il connubio tra blockchain e web possa dare vita a una nuova economia in grado di premiare anche gli utenti.

Altri sistemi operano ancora più alla radice di internet: è il caso del protocollo decentralizzato Ipfs (interplanetary file system). Basato su blockchain e gestito quindi da una rete di computer, mira a fare concorrenza al classico protocollo Https e permette di ospitare i contenuti online su una rete distribuita, evitando così che sia sufficiente dimenticarsi di rinnovare il dominio per vedere il proprio sito e tutto ciò che ospitava scomparire (un problema sempre più diffuso). Anche l’Ipfs richiede però che ci sia sempre almeno qualche computer acceso che partecipi alla catena, sollevando qualche dubbio – almeno teorico – sulla sua affidabilità sul lunghissimo termine.

Una realtà come Stacks ha invece l’obiettivo di creare una nuova internet basata su blockchain, dando vita a un sistema unico di riconoscimento degli utenti (in poche parole, un solo account per accedere a qualunque servizio) e a un ecosistema economico basato interamente su criptovalute. «Il nostro obiettivo è costruire una nuova internet basata sulla decentralizzazione», ha spiegato il fondatore di Stacks, Muneeb Ali, durante una presentazione. «Siamo partiti con un sistema d’identità decentralizzato, poi abbiamo implementato un sistema di domini decentralizzati, poi un network decentralizzato per l’archiviazione dei dati. Mettendo tutto questo assieme, abbiamo creato una piattaforma decentralizzata». Una piattaforma a cui gli sviluppatori possono accedere per creare le loro applicazioni, entrando così a far parte di questa potenziale nuova internet.

Sarà una rivoluzione?

Siamo quindi davanti a una nuova rivoluzione informatica, questa volta basata su blockchain e che cambierà per sempre l’ossatura della rete? È ancora troppo presto per dirlo. Prima di tutto, perché i colossi del web godono di risorse economiche quasi infinite, di infrastrutture molto efficienti e di enormi quantità di utenti, a cui non è facile chiedere di abbandonare Facebook o Google in nome della democrazia, della privacy o della promessa di entrare a far parte di un nuovo ecosistema economico.

Tutto questo, a maggior ragione, dal momento che l’utilizzo di questi sistemi decentralizzati non è per niente intuitivo. Guadagnare usando Brave implica la volontà e la capacità, tra le altre cose, di impostare un portafoglio virtuale su cui custodire le criptovalute; l’utilizzo di Filecoin richiede l’abilità di diventare il nodo di una blockchain e condividere in maniera sicura la propria capacità di archiviazione; creare un account universale su Stacks significa esporsi al rischio di perdere i dati di accesso senza poterli recuperare facilmente come avviene quando scordiamo una password. Se a oltre dieci anni dalla nascita della blockchain – e nonostante da quasi altrettanto tempo si parli delle potenzialità di una internet decentralizzata – tutti questi strumenti sono ancora utilizzati soltanto da una piccola nicchia di entusiasti, la ragione è soprattutto una: combinare decentralizzazione e rispetto della privacy con un’infrastruttura efficace e facile da usare è una sfida ancora estremamente difficile da vincere.

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