- Rispetto ai Big Social ci coglie il desiderio di conservare il bambino del servizio senza trangugiare l’acqua sporca del bagnetto e senza aspettare nuove leggi, ma restando in quelle che ci sono.
- La chiave sta nello stanare la responsabilità che le imprese social negano d’avere e che invece è intrinseca agli algoritmi che predispongono e ai criteri con cui arruolano l’utenza.
- Sperando che a decidere sia un Tribunale invulnerabile alle supercazzole che Facebook e compagnia propalano per non pagare il dazio.
Le più “politiche” fra le big tech sono Meta (Facebook e Instagram) e Alphabet (Google e YouTube) perché intermediano immagini e parole tra persone, tant’è che promettono, al di là della erogazione di un servizio, di “costruire comunità di intenti e di passioni” fra i soggetti più distanti, mischiando posta, albi di famiglia e contenuti vari generati da noi stessi. È dunque innanzitutto la nostra voglia, d’informarci e d’informare, che assicura ai sistemi social lunga vita. Creando nel contempo l’ambiente ideale in cui prosperano, con pari fortuna, il falso e il vero.
Tutti comprendono il rischio di questa torrenziale convivenza fra gli opposti, ma raramente se ne crucciano. Essenzialmente per tre ragioni: la questione gli pare marginale rispetto ai benefici dell’insieme; sopravalutano la propria capacità di distinguere fra autentico e patacca; sottovalutano il rischio di finire essi stessi sotto mira. Grazie a questa generale accettazione i big social paiono fornirci un sistema che Candido, il personaggio di Voltaire, riterrebbe senza dubbio pieno di difetti, ma il migliore concretamente concepibile.
Il bambino e l’acqua sporca
Però di tanto in tanto esci dall’incanto e vorresti conservare il bambino del servizio senza trangugiare l’acqua sporca del bagnetto. Le imprese social (fra loro Facebook e Instagram sono le più esposte) rimestano quell’acqua senza ripulirla perché pretendono di farlo con la “censura su misura” volta a tacitare la politica e le lobby moralistiche sulle questioni di violenza e sesso.
Censurano cioè non per scelta di valori, ma per astuzia opportunistica, peraltro velleitaria perché quei contenuti li abbatti a milionate e sùbito ricompaiono a miliardi sulla spinta di un’utenza anonima in gran parte. Così finiamo col tenerci l’acqua sporca e accettiamo, che è ancora peggio, che una compagnia ci censuri i contenuti anche se se ne afferma “non responsabile”.
Avremmo dovuto indignarci assai per tempo rispetto a questo modo di presentarsi e di operare, ma presi dal lato utile dei social abbiamo lasciato che la rabbia si spegnesse, rassegnandoci all’idea che la comunicazione social abbia il suo lato delinquenziale col quale è inevitabile convivere.
Se a questo punto siamo giunti, è ancora possibile, ci domandiamo, vedere la rivalsa nei confronti di quei giganti della borsa che alzano le mani da innocenti rispetto ai tanti casi di diffamazione e danno subiti dagli utenti? È possibile, in sostanza, stanare i social dal rifugio della “non responsabilità” che gli garantisce i soldi facili?
Il mito della “scatola nera”
Il luogo comune che descrive i social come semplici postini nasce dalla sezione 230 del Decency act, un norma Usa del 1996 tradotta in Europa nel 2000, dove è sancito che “chi fornisce servizi interattivi non è responsabile delle informazioni che altri gli consegnano”, a patto, specifica l’Europa, che la piattaforma “non selezioni il destinatario” e “non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse”.
Secondo le imprese social quelle parole avvalorano la metafora di sé stessi come “scatole nere”, dove qualcosa entra da una parte e un effetto ne scaturisce al lato opposto, ma senza che la scatola svolga un qualche ruolo, salvo starsene immobile, ferma e oscura.
Però nel caso quotidiano e non metaforico del concreto sistema social interviene sempre l’algoritmo, che non è una “scatola vuota” ma un “programma” accuratamente impostato per scegliere se e quanto “ampliare” sia il campo dei destinatari sia la scrittura stessa, arricchendola di segni d’enfasi e contesti.
Il “programma” del resto è un criterio d’azione volto a un fine e messo a punto da un autore, che è persona e dunque responsabile. Nel caso del social il fine particolare, scelto fra tanti altri diversamente concepibili, è quello di incentivare il traffico dei clic per incrementare la pubblicità e il flusso dei ricavi.
La realtà dell’algoritmo
Ne deriva un algoritmo dotato di personalità concreta che l’astuto diffamatore usa come compagno di scrittura, sensibile alle espressioni vigorose e colorite che più attraggono attenzione. In sostanza l’autore ubbidisce all’algoritmo per ottenere che promuova quel post o quel video presso i cultori degli scandali in materia attraverso il sistema di news feed.
Se l’autore scrive in funzione delle regole pro-diffusive fissate dalla casa, la responsabilità dell’impresa social è ovviamente di tipo cooperativo, quindi da soppesare caso a caso a opera di un terzo giudicante in tribunale. Ma la responsabilità si fa diretta e piena allorché la stessa impresa social ostacola o rende impossibile accertare chi sia l’autore originale.
In questo caso l’unico criterio ragionevole è che, sino a prova contraria, il messaggio anonimo sia attribuito all’impresa social stessa, evitando al diffamato il tormento di indagini e lungaggini costose. Ma al di là della semplicità della questione conviene ricordare che l’anonimato non è questione estrema e marginale, ma un punto cruciale nel collocare il social fra utenza e crimine.
Quando gli viene rinfacciata la faccenda le imprese del settore s’arroccano dietro un paio di argomenti: 1) la protezione dei whistle blower, cioè il denunciatore anonimo di torti; 2) lo sviluppo della comunità di rete. Ma sono entrambe chiacchiere che hanno valore pari a zero.
I tanti whistle blower “popolàni” che s’iscrivono con identità fasulle o adottano una maschera, sono tutt’altro che invisibili e vengono acchiappati senza sforzo da qualsiasi polizia, perché la catena dei contatti tecnici ne rivela la posizione e racconta l’intera attività che quei volonterosi svolgono al computer o con lo smartphone.
Tanto che c’è da star sicuri che la mitologia del whistle blowing in rete sia una trappola tesa dalle huardie, per meglio sorvegliare chi gli pare e neutralizzarlo a discrezione. Quanto al secondo argomento, è tutto da dimostrare, in mancanza di pratiche diverse, che l’anonimato favorisca lo sviluppo comunitario della rete. Ma anche se fosse vero che stringendo i controlli identitari si sgonfierebbero utenza, traffico e ricavi, non si capisce perché le imprese che non fanno quei controlli si tengano le convenienze e lascino i rischi a noi.
Il mito della rimozione
Ad oggi la dialettica legale fra utenza e imprese social si concentra sulla richiesta di rimuovere il post diffamatorio, comunque con fatica e quando il danno è dilagato. Per non dire che se l’autore è un anonimo scaltrito l’unica possibile querela è quella contro ignoti, che non ti esime dalle spese d’avvocato.
Ovviamente non sappiamo cosa deciderebbe un tribunale se l’impresa social, potenza mondiale del valore di trilioni, fosse chiamata in causa perché risarcisca il danno provocato nella misura che le spetta. Ogni giudizio ha una componente di scommessa, ma basterebbe a incoraggiare un utente danneggiato che il giudice, pur incanutito sui libri di diritto, scoppi a ridere quando il legale di Facebook cercasse di rifilargli la leggenda della scatola nera.
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