- Con circa il 75 per cento della produzione, l’Asia orientale – e Taiwan in particolare – ha il monopolio dei microchip.
- La capacità degli Stati Uniti è crollata negli ultimi decenni: dal 37 per cento nel 1990 all’attuale 12 per cento.
- Stati Uniti e Cina combattono a colpi di sussidi governativi e dirigismo una vera e propria guerra dei microchip. Il decoupling promosso da Washington ha accelerato la corsa di Pechino verso l’autosufficienza tecnologica.
Lo sbarco a Taipei da un volo della Us Air Force della speaker della Camera, Nancy Pelosi, l’estate scorsa ebbe una risonanza planetaria e suscitò la reazione di Pechino, con il blocco navale dell’Isola inscenato dall’Esercito popolare di liberazione.
Sono passati in confronto inosservati i trecento dipendenti della Taiwan semiconductor manufacturing company (Tsmc) che il 15 novembre, a bordo di sei charter, familiari al seguito, hanno compiuto il percorso inverso: da Taiwan in Arizona. Eppure il trasferimento a Phoenix dei taiwanesi di Tsmc – con la missione di avviare nel 2024 la produzione di microchip nella “Fab 21” – è un evento che può cambiare la storia dell’economia, accelerando il decoupling tra Cina e Stati Uniti.
Tsmc diventa USsmc, ha titolato il Global Times. Secondo il giornale del Partito comunista, Washington userà “Fab 21” - che sfornerà circuiti integrati creati con tecnologia a 4 nanometri - «come esempio per attirare negli Stati Uniti la manifattura di chip di altri paesi ancora titubanti», e sottrarla alla Repubblica popolare cinese, dove Tsmc è presente con “Fab 10” a Shanghai e “Fab 16” a Nanchino, che realizzano circuiti integrati meno performanti, rispettivamente a sette e a 16 e 28 nanometri.
Il 6 dicembre la compagnia fondata nel 1987 da Morris Chang ha triplicato l’investimento deliberato quando alla Casa bianca c’era Donald Trump, annunciando la costruzione di un altro stabilimento a Phoenix che, nel 2026, produrrà chip a 3 nanometri, i più avanzati attualmente sul mercato.
Saranno spesi complessivamente 40 miliardi di dollari, uno tra i maggiori investimenti esteri diretti mai realizzati negli Stati Uniti, che impiegherà 10 mila lavoratori specializzati. L’accordo è stato ufficializzato nel corso della cerimonia con la quale il presidente Usa, Joe Biden, e la sua segretaria al commercio, Gina Raimondo, hanno festeggiato assieme a Chang l’arrivo dei primi macchinari a “Fab 21”.
I timori di Taipei
Nel suo discorso in dieci minuti Biden non ha mai pronunciato la parola «Taiwan», accrescendo la preoccupazione di chi teme che Washington possa dimenticarsi l’impegno di difendere l’Isola da Pechino (preso con il Taiwan Relations Act del 1979) dopo che ingegneri, tecnici specializzati e processi produttivi saranno emigrati negli Stati Uniti.
Chris Miller, autore di Chip War, ha esortato il governo Usa a fare pressioni su Tsmc (e sulla rivale coreana Samsung) per continuare a delocalizzare i suoi impianti, «anche implementando nuovi nodi tecnologici contemporaneamente a Taiwan e negli Stati Uniti». Un ex dirigente di Tsmc ha riferito che quella di Miller è la posizione del dipartimento del commercio degli Stati Uniti, «anche se sono imbarazzati a dirlo pubblicamente».
Con Biden a Phoenix c’era anche Tim Cook, raggiante per aver portato negli Usa - al riparo dalle interruzioni delle catene di approvvigionamento sperimentate con la pandemia - un pezzo della filiera della sua Apple. L’amministratore delegato ha comnicato che la mela sarà il maggior acquirente della “Fab 21”, di «questi chip che possono essere orgogliosamente punzonati ‘made in America’», che finiranno negli iPhone e nei Mac. Entro il 2026, i due stabilimenti taiwanesi in Arizona produrranno più di 600.000 circuiti integrati all’anno, che dovrebbero soddisfare l’intera domanda statunitense di chip avanzati.
A trarre vantaggio dalla loro vicinanza potrebbe essere anche il complesso militare-industriale a stelle e strisce. Greg Stanton ha sostenuto che il nuovo polo assicurerà che componenti impiegati nel sistema militare statunitense non siano creati da una potenza straniera. «La visita del presidente - ha aggiunto il deputato democratico - mostra quanto siano importanti i chip, non solo per la nostra economia, ma anche per la nostra sicurezza».
Ritorno in fabbrica?
Con circa il 75 per cento della produzione, l’Asia orientale – e Taiwan in particolare – ha il monopolio dei microchip. La capacità degli Stati Uniti è crollata negli ultimi decenni: dal 37 per cento nel 1990 all’attuale 12 per cento.
“Fab 21” sarà finanziato in parte dai 52 miliardi di dollari di sussidi governativi per lo sviluppo dell’industria nazionale di semiconduttori e tecnologie correlate previsti dal “Chips and science Act” approvato il 9 agosto, il giorno in cui si sono concluse le esercitazioni militari cinesi intorno a Taiwan in risposta alla visita di Pelosi.
Gli operai (10 mila) e le gru a Phoenix lavorano a pieno ritmo per dare forma a “Fab 21”. Eppure, incontrandola a Taipei, Morris Chang aveva avvertito la speaker della Camera che portare la manifattura dei chip negli Usa è un’operazione «destinata al fallimento». In un’intervista l’imprenditore novantunenne ha spiegato perché: «Costi troppo elevati, non competitivi sul mercato mondiale» e scarsità di “talenti” del settore, dopo che, a partire dagli anni Ottanta, i lavoratori statunitensi sono emigrati in massa dalla manifattura verso la finanza e la consulenza. Quella di Chang è stata una predica nel deserto. Il presidente di Tsmc, Mark Liu – hanno rivelato i media taiwanesi –, ha dato l’ok all’investimento «su insistenza del governo statunitense».
Stati Uniti e Cina combattono a colpi di sussidi governativi e dirigismo una vera e propria guerra dei microchip. Il decoupling promosso da Washington ha accelerato la corsa di Pechino verso l’autosufficienza tecnologica. Smic – il gigante shanghaiese nella lista nera delle compagnie a cui gli Usa vietano la vendita di apparecchiature – avrebbe acquisito “autonomamente” (sotto la guida dell’ex Tsmc Liang Mong Song, si vocifera) la tecnologia a sette nanometri. E ieri la Reuters ha anticipato che il governo cinese risponderà alle restrizioni Usa varando un pacchetto di sussidi da 143 miliardi di dollari – operativo dal primo trimestre 2023 – a sostegno dei produttori (privati e pubblici) di circuiti integrati, a base soprattutto di sovvenzioni statali per l’acquisto di macchinari e sgravi fiscali.
Il fiasco di 25 anni fa
La cultura del lavoro dell’Asia orientale è diversa da quella dell’Occidente. Il miracolo della della Taiwan semiconductor manufacturing company è stato possibile anche grazie a dipendenti disposti - se necessario alle esigenze dell’azienda - a rimanere in ufficio e sulla catena di montaggio ben oltre l’orario contrattuale, il cellulare acceso h24, pronti a obbedire alle richieste del management.
Un tecnico Usa spedito a Taiwan per un corso d’aggiornamento l’anno scorso ha criticato online quella che ha definito la «gestione militare» di Tsmc. «L’America vuole che Tsmc vada lì, quindi deve andare. Ma non è possibile che gli americani lavorino a turni 24 ore su 24 come fanno i taiwanesi. I miei colleghi e io non crediamo che l’impianto statunitense avrà successo», ha detto a CommonWealth Magazine uno degli ingegneri appena arrivati nella “Fab 21”. Quest’ultima - come struttura e organizzazione - è concepita come un clone di “Fab 18”, che nella metropoli di Tainan (nel sud dell’Isola) lavora con processo a tre nanometri.
Nel 1996 – all’indomani della terza crisi dello Stretto – Tsmc impiantò a Portland “WaferTech”, la sua prima fonderia su territorio americano. Tre anni dopo Morris Chang si recò negli Stati Uniti per verificare l’andamento di quella joint-venture con un gruppo di compagnie americane.
«Ebbi solo cattive sorprese», ha ricordato il magnate. Una tra le quali era relativa ai costi dei terreni, dei salari e le tasse, del 50 per cento superiori rispetto a quelli taiwanesi. Nel 2001, quando scoppiò la bolla delle dot-com, “WaferTech” perse 38 milioni di dollari in un solo trimestre.
Come se non bastasse, Tsmc non riusciva a trovare fornitori locali per alcuni prodotti chimici. Così quelli di “WaferTech” scoprirono che gli acidi forti e gli alcali forti non erano consentiti sugli aeroplani e che portarli via mare richiedeva troppo tempo. Inoltre la composizione mista del management produsse continui conflitti tra taiwanesi e statunitensi.
Questa volta il vicepresidente di Tsmc, Rick Cassidy, ha ottenuto “pieni poteri”, essendo stato nominato presidente e amministratore delegato di Tsmc Arizona. L’esperienza maturata basterà a evitare di ripetere gli stessi errori? Alla fine anche Chang sembra essersi rassegnato: «Sono passati ventisette anni e l’industria dei semiconduttori ha assistito a un grande cambiamento della situazione geopolitica nel mondo. La globalizzazione è quasi morta e il libero scambio è quasi morto. Molte persone vorrebbero ancora che tornassero, ma non credo che torneranno».
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