- Quando il world wide web era nato da poco e da ancora meno iniziava a essere diffuso, internet poteva ancora sembrare una cosa “a misura d’uomo”: di qui l’idea che ci potesse essere una curatela umana di internet.
- Oggi è la vita stessa a essere “curata” dalla macchine: quale aspetto della nostra quotidianità non è organizzato, mediato o addirittura reso possibile da internet? La prospettiva si è totalmente ribaltata.
- Umani e macchine si incontreranno a metà strada, già lo stanno facendo. Il punto d’incontro, l’esito di questa fusione, Andrea Daniele Signorelli lo chiama technosapiens e da qui il titolo del suo ultimo libro.
Sembra incredibile a raccontarlo adesso, ma a metà degli anni Novanta, se ti serviva l’indirizzo web del Louvre o di un sito dove comprare dei libri, potevi anche tirare giù dallo scaffale la tua copia – fisica! Di inchiostro e carta giallina! – delle Pagine gialle di internet e, inumidendoti il dito per sfogliarle, cercare ciò che ti serviva. Io ce le avevo! Esiste qualcosa di più teneramente ridicolo? Un adolescente di oggi potrebbe mai capire di cosa sto parlando? Probabilmente non sa nemmeno cosa sono le Pagine gialle normali…
Il fatto è che a quei tempi, quando il world wide web era nato da poco e da ancora meno iniziava a essere diffuso, internet poteva ancora sembrare una cosa “a misura d’uomo”: di qui l’idea che ci potesse essere una curatela umana di internet. Oggi una presunzione del genere appare assurda e naïf: è internet che mappa internet, la macchina conosce ed esplora sé stessa attraverso gli infaticabili algoritmi dei motori di ricerca. Ma, ecco il punto, oggi è la vita stessa a essere “curata” dalla macchine: quale aspetto della nostra quotidianità non è organizzato, mediato o addirittura reso possibile da internet? La prospettiva si è totalmente ribaltata.
Guardiamoci intorno
La fantascienza è piena di intelligenze artificiali così evolute da divenire indistinguibili dagli esseri umani e dalla loro (presunta) intelligenza: i replicanti di Philip K. Dick e Blade Runner, Terminator, i computer di Matrix, tutte entità che a un certo punto si ribellano al loro creatore e ne minacciano la sopravvivenza. Fantasie di golem tecnologici che nascondono ed esorcizzano una paura opposta e ben più reale: non sono le macchine a divenire sempre più simili a noi, siamo noi a diventare sempre più simili a delle macchine! Ma, di nuovo, non pensate alla fantascienza, a innesti cibernetici nel cervello o arti robot. Limitatevi a guardarvi intorno, a pensare a tutte le volte che taggate una foto sui social, che “cliccate sui segnali stradali” di una foto per garantire che non siete un robot (ma in realtà state addestrando un algoritmo), che guardate un tramonto immaginando il filtro da applicare su Instagram. Pensate a tutti i lavori il cui “capo è un algoritmo”, cioè buona parte dei lavori della gig economy, dai magazzinieri di Amazon, ai riders del delivery, ai brokers della finanza (Il tuo capo è un algoritmo: contro il lavoro disumano è un libro sull’argomento scritto da Antonio Aloisi e Valerio De Stefano per Laterza). O a quanti dei nostri acquisti, consumi culturali, scelte politiche sono orientati dagli algoritmi che trasformano la vita, la nostra vita, in dati da cui estrarre valore (per altri).
Punto di fusione
Umani e macchine si incontreranno a metà strada, già lo stanno facendo. Il punto d’incontro, l’esito di questa fusione, Andrea Daniele Signorelli lo chiama technosapiens e da qui il titolo del suo ultimo libro. Technosapiens. Come l’essere umano si trasforma in macchina (D editore) è un’agile e utilissima porta di ingresso per conoscere tutti questi fenomeni, una bella mappa per muoversi in un ecosistema che, quasi senza che ce ne accorgiamo, sta plasmando la nostra umanità. Ora, non nella fantascienza.
Tale punto di fusione tra umano e macchina che Signorelli racconta, penso di averlo riconosciuto in me quando mi accorsi, dopo un po’ di tempo che ce l’avevo in casa, di come mi rivolgevo ad Alexa. Senza che me ne rendessi conto mi rivolgevo a lei con un tono di voce differente: «Alexa o Siri non sono davvero in grado di capirci. Siamo noi che, sfruttando l’elasticità della mente umana, abbiamo imparato a rivolgerci alla macchina in una maniera schematica, sempre uguale, priva di quei tic e di quelle ambiguità che contraddistinguono il linguaggio umano. È l’unico modo per essere da lei compresi. Ciò che rende lo scambio possibile è quindi il fatto che noi stiamo imparando a parlare come una macchina. In un certo senso, è Alexa che ci sta addestrando».
Gli assistenti vocali sono solo un piccolo esempio del paesaggio che stiamo costruendo intorno a noi. Per certi versi è simile a quello che nel ventesimo secolo è successo per le automobili: pensavamo di essere noi a usarle, ma di fatto stavamo pensando le città a loro misura, adattandoci a vivere in un ambiente pensato per loro. Allo stesso modo l’ecosistema digitale in cui siamo immersi, che immaginiamo a nostro servizio, è invece strutturato per farci pensare come una macchina. «Se progettassimo un ambiente all’interno del quale gli umani si comportano sempre in maniera perfettamente logica, allora diventeremmo simili alle macchine»: eravamo già a buon punto, per usare un eufemismo, ma la pandemia ci ha dato una bella mano. Nel momento in cui abbiamo trasferito le nostre vite in rete, a cominciare da quelle lavorative, «staccare dal lavoro è una possibilità che, per molte professioni, non è più contemplata: siamo always on. E questo è un aspetto cruciale, soprattutto considerando che le evoluzioni tecnologiche future sembrano avere una sola cosa in comune: spingere il più possibile l’acceleratore sull’efficienza dei lavoratori, dotando l’umanità di strumenti che ci permettono di (o ci obbligano a?) essere sempre reperibili, sempre possibilitati a lavorare e in grado di farlo sempre più velocemente. Tutto ciò avviene anche facendo leva sugli stessi aspetti che causano la nostra dipendenza dai social».
L’intelligenza artificiale occupa una posizione chiave nell’orizzonte culturale, simbolico e ideologico contemporaneo. È il polo attrattivo in cui si accumulano storytelling e mistificazioni usate per giustificare scelte economiche e politiche. Fondamentale quindi decostruire molti dei discorsi che si fanno su di loro. È quello che fa Signorelli nel suo libro, così come gli autori dei saggi raccolti nell’interessante volume AI & Conflicts (Krisis Publishing, in italiano). A cominciare dall’idea stessa di intelligenza.
Diventare utenti
Quando parliamo di intelligenza artificiale ci immaginiamo qualcosa di simile all’intelligenza umana, al punto di superarla e sostituirla: ma quest’idea mimetica è, appunto, fantascienza quando non una favola da pubbliche relazioni. Per le scienze informatiche «un programma sarà intelligente se le sue performance nel compiere un certo compito migliorano con l’esperienza»: è una concezione strumentale. Immaginare l’IA come una simulazione del cervello umano, serve a nascondere che l’IA è uno strumento manipolato da operatori umani per interfacciarsi con grosse quantità di dati.
Detto più facile: il digitale ha messo a disposizione di alcuni soggetti (le big tech, i governi) un’enorme quantità di dati, quelli che produciamo ogni momento in cui siamo in rete (e ormai ci siamo sempre, anche quando non ce ne accorgiamo). Dati inutili se non sappiamo “leggerli”, se non sappiamo estrarre dal loro interno le informazioni giuste, se non sappiamo trasformare i dati in valore. Questa trasformazione avviene attraverso gli algoritmi che filtrano questi dati: è questo che fanno le intelligenze artificiali, oggi, nelle nostre vite.
Da persone (e cittadini) siamo diventati utenti. Dalla carta d’identità siamo passati a user e password, dai diritti alle licenze d’uso che nessuno legge: di questa trasformazione ne fa un racconto personale Joanne McNeil nel libro Lurking: How a Person Became a User, una sorta di memoir di navigatrice, dai tempi eroici quando, ragazzina, aveva un sito personale su Geocities pieno di gif animate e musichette di sottofondo, fino a quella shitstorm infinita che è il presente visto attraverso i social network.
Il punto è, come nota McNeil e chiunque conservi memoria delle Pagine gialle di internet, è che si è passati da un tempo in cui la metafora principale per definire internet era quella di “biblioteca” a uno in cui è “piazza”. Non più, cioè, un insieme di documenti a cui accedere (testi, immagini, dati, video e così via), ma come un “luogo” in cui le persone reali socializzano, si incontrano, discutono. Soprattutto litigano.
E litigano “by design”, dato che la polarizzazione è la direzione verso cui i social strutturalmente fanno andare: più discuti, più ti incazzi, più stai dentro le piattaforme e produci dati da estrarre. Le conseguenze, probabilmente, le avete appena lette nelle altre pagine di questo giornale, qualunque giorno sia oggi.
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