Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo ampi stralci della sentenza in rito abbreviato dell’inchiesta Gotha del 2006, quando a Palermo finiscono in carcere vecchi boss e nuove leve due mesi dopo l’arresto di Provenzano Bernardo.


Rotolo non ha informato Provenzano degli interventi sui mandamenti di Porta Nuova e Boccadifalco. Si è comportato in quel modo per esigenze di natura tattica. Temeva che il “fantasma di Corleone” rivelasse a Lo Piccolo i nomi dei “reggenti” vicini a lui.

Quelle alleanze devono rimanere segrete. Sarebbero state una grande risorsa nel momento di esplosione del conflitto ormai inevitabile.

Il “piazzare” segretamente uomini fidati nei mandamenti più importanti era una strategia già rivelatasi vincente per Totò Riina nella guerra con i “palermitani” Inzerillo e Bontade. Era accaduto con i “traditori” Giovanbattista Pullarà e Giovanni Teresi detto u pacchiuni a Santa Maria del Gesù per sopprimere Bontade; si era ripetuto con Salvatore Buscemi e Salvatore Montalto a Passo di Rigano per eliminare Inzerillo.

Vi è di più. Gli infiltrati avevano salvato la vita a Riina, prima che lui passasse al contrattacco. Lo ricordano alcuni protagonisti di quella stagione come Antonino Giuffrè, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi.

Si tratta di un appuntamento che Bontade e Inzerillo avevano dato a Riina al fondo Magliocco in una delle residenze dello stesso Stefano Bontade. Appuntamento sulla carta fissato per discutere questioni della organizzazione, ma che in realtà doveva concludersi con l’uccisione di Riina e Calò.

Ebbene l’imbeccata degli infiltrati eviterà alle vittime predestinate di cadere nel tranello.

Tornando al boss di Pagliarelli, nell’anno 2005, costui mostra di avere dei punti di vulnerabilità nello scontro a distanza con Lo Piccolo. La sua stessa incolumità fisica è continuamente in pericolo.

Essendo ristretto agli arresti domiciliari rimane un obiettivo più facile rispetto a Lo Piccolo che da latitante può spostarsi a suo piacimento.

Nel residence di viale Michelangelo vengono potenziate le precauzioni. Per evitare che eventuali killer possano tendergli un agguato fingendosi esponenti delle forze dell’ordine, si fa costruire tra la villa ed il cancello un muro sul quale viene apposto un faro.

Ancor più preoccupante per Rotolo, è il non potere contare con sicurezza sull’appoggio di Provenzano.

La posizioni moderate, assunte negli anni, mentalmente hanno avvicinato l’anziano leader a Giulio Gambino e allo stesso Lo Piccolo, sottovalutando i pericoli di vendetta dei “perdenti”. Pare non comprendere le conseguenze dell’accreditare nei vertici di Cosa Nostra un uomo come Lo Piccolo, che apparteneva al gruppo di Saro Riccobono distrutto quasi completamente dal crudele agguato del 30 novembre del 1982 in cui simultaneamente morirono per strangolamento, colpi di arma da fuoco e scioglimento nell’acido quindici persone.

Forse Binnu non sa che Michele Micalizzi, il braccio destro del boss Saro Riccobono e scampato al terribile agguato miracolosamente, ha finito di scontare la pena e sta uscendo di prigione. E non sa neppure che i superstiti della fazione dei “perdenti” con il cuore pieno di odio girano indisturbati per le strade di Palermo, come Salvatore Di Maio, a cui i corleonesi avevano ucciso un figlio.

Nonostante tutto, proprio per i propositi bellicosi, l’appoggio di Binnu rimane decisivo. Il vecchio leader va conquistato con l’astuzia, con le “tragedie”, con la minaccia.

L’11 agosto del 2005, dopo aver valutato tutti i possibili scenari, Rotolo e Cinà decidono che Salvatore Lo Piccolo e il figlio Sandro devono essere uccisi. Ritengono che si sia giunti “ad un punto di non ritorno”.

Temono che lo schieramento contrapposto sia in procinto di scatenare la “grande vendetta”. E sono convinti del fatto che, solo eliminando il Lo Piccolo, anche gli Inzerillo, quelli di Brancaccio, di San Lorenzo e i torrettesi avrebbero capito chi comandava davvero e si sarebbero “messi il cuore in pace”.

Come negli anni 1981-1983, ai tempi di Riina, Rotolo e Cinà si “tengono chiusi”. Pensano di impostare le cose in modo tale che quando gli avversari saranno consapevoli di essere in guerra in realtà quella guerra sarà già finita. Sentono il dovere di non dare conto a nessuno di quel progetto di eliminazione dei due avversari. Ma in quel progetto un ruolo ben preciso deve ricoprirlo proprio il vecchio Binnu, a cui difficilmente Lo Piccolo può negare un incontro.

Pensano che sia compito di Binnu attirare i Lo Piccolo in una trappola. Ci avrebbe poi pensato un “gruppo di fuoco” del boss di Pagliarelli ad eseguire materialmente il “servizio”. Ma Provenzano andava convinto. Forse non basta ricordargli la sua appartenenza allo schieramento corleonese durante le stragi di inizio anni ottanta. E non è neppure sufficiente pungerlo nell’orgoglio sottolineandogli che se al suo posto vi fosse stato Riina sicuramente avrebbe saputo da che parte stare.

Da tempo Provenzano aveva coi fatti rinnegato una certa “ideologia stragista” e i suoi metodi esprimevano l’esigenza di ricercare soluzioni non cruente per non render ancora più ossessiva l’azione di contrasto dello forze dell’ordine e della magistratura.

Nel convulso triennio 1993-1996, era stato sul fronte opposto a quello di Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca che, dopo l’arresto di Riina, volevano prendersi Cosa Nostra dichiarando guerra allo Stato. Per tutti Binnu era diventato l’ “uomo delle trattative”, spesso poco trasparenti, anche con segmenti importanti delle istituzioni.

Difficilmente l’avrebbero messo “spalle al muro” con motivazioni nostalgico-affettive per la sua antica provenienza corleonese.

Piuttosto, si potrebbe far leva sul sentimento di lesa maestà e di tradimento del capo di Cosa Nostra latitante da decenni. La diffusione del sospetto, d’altra parte, era stata la risorsa con cui Riina aveva fomentato e sfruttato le rivalità tra gli altri capi per vincere la guerra. Rotolo si ispira ancora una volta a lui.

Decide, attraverso Cinà, di informare Provenzano di un fatto grave. Proprio Binnu era stato designato come la vittima di una congiura maturata all’interno della organizzazione. Si tratta di una vecchia storia di circa dieci anni prima. Ne parla anche Giuseppina Vitale, sorella del boss Vito Vitale, alla autorità giudiziaria.

I fratelli Vitale di Partitico, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e Mimmo Raccuglia avrebbero progettato l’assassinio dell’anziano leader corleonese per il suo orientamento antagonistico rispetto alla ala stragista. Quel progetto, secondo la Vitale appoggiato da Riina e Bagarella all’epoca già detenuti, non era poi andato in porto perché la maggior parte di coloro che lo avevano escogitato erano finiti in carcere.

Ebbene Rotolo e Cinà vogliono far sapere a Provenzano di avere appreso che a quella congiura avevano partecipato anche Salvatore Biondo detto “il lungo” e, appunto, Salvatore Lo Piccolo.

In quel modo, sperano di averlo come alleato, servendogli sul piatto d’argento la vendetta proprio verso Lo Piccolo.

In ogni caso, Rotolo e Cinà hanno deciso. Bisogna “tagliare la testa al toro”. Provenzano è di fronte ad un bivio. O si elimina Lo Piccolo con il suo contributo. O comincia un altro “bagno di sangue”.

Queste due vie sono comunque incompatibili con la strategia della “sommersione”.

Dunque, a partire dall’11 agosto del 2005, Rotolo e Cinà chiamano a raccolta i fedelissimi. Angelo Parisi e Michele Oliveri sono i primi ad essere avvertiti del progetto di eliminare Lo Piccolo e dell’inizio della “guerra”. Con loro anche Franco Bonura e Gaetano Sansone i quali, scatenandosi il nuovo conflitto, sarebbero certamente rientrati tra i principali obiettivi degli Inzerillo per il presidio che tenevano nel mandamento di Boccadifalco.

In questo quadro, i corleonesi decidono di iniziare con l’agguato a Salvatore Di Maio, detto Coruzzu. È uno degli scappati a cui avevano ucciso il figlio. Gira per Palermo come una “mina vagante” violando l’antica delibera della commissione. “Nino “rapu l’antu” io”, “io apro le danze” aveva promesso Rotolo a Cinà se non si fossero rispettate le regole.

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