Le donne muoiono anche se ubbidiscono e muoiono anche se non rischiano. Muoiono ammazzate dagli uomini
Alle donne è stato insegnato che devono accudire e che non se ne possono andare. È una visione brutale, iniqua e limitante delle infinite potenzialità di un individuo. Eppure è stata ripetuta e perpetrata talmente a lungo che le donne l’hanno introiettata fino a trovarla parte del proprio tessuto esistenziale, epidermico.
Nei secoli, le donne hanno appreso la propria ininfluenza. Hanno imparato a essere umili o a simulare umiltà. Hanno imparato ad avere paura perché la paura limita il rischio di azioni pericolose e aumenta dunque le possibilità di sopravvivenza. Alle donne è stato spiegato che se si rischia si muore.
Le donne, tuttavia, muoiono anche se ubbidiscono e muoiono anche se non rischiano. Muoiono ammazzate dagli uomini. Ammazzate dai mariti, dai compagni, dagli amanti, dagli ex, dai fratelli, muoiono ammazzate dopo lunghe relazioni e frequentazioni estemporanee, muoiono perché qualcuno si è anche solo immaginato di averle e dunque pensava di poterne disporre.
Ne sono morte, in Italia, 105 dall’inizio dell’anno. Ne muore una ogni 72 ore. Allo stesso modo, a 22 anni, Giulia Cecchettin è stata uccisa dall’ex fidanzato.
Potrei essere io?
Il femminicidio scardina le inscardinabili differenze di classe. Prescinde dalla professione, dall’estrazione, dal reddito e dal livello di istruzione. Raggiunge le donne a ogni latitudine del paese. Gli uomini uccidono le donne nei centri delle grandi e piccole città, nelle periferie e nelle campagne, nelle province profonde, a nord e a sud.
Gli uomini rispondono: non tutti gli uomini uccidono una donna. Le donne pensano: tutte le donne possono essere uccise da un uomo. Le donne pensano: domani potrei essere io. Guardano un’altra donna e pensano: domani potresti essere tu.
Gli uomini non lo so se pensano mai: potrei essere io?
Un oggetto
Il femminicidio è un crimine intrecciato alla violenza perpetrata su ogni soggettività percepita come inferiore o debole. È l’estremo esercizio di potere che chiarisce la struttura gerarchica di un mondo in cui nessuno deve mai dimenticare chi comanda.
Il femminicidio è la prova plastica che la violenza di genere non è un raptus, ma uno strumento per disciplinare. Vengono disciplinate le donne che non si adeguano al ruolo di proprietà così come le donne che si adeguano. Il fulcro non è la soddisfazione del compito richiesto alla vittima, bensì l’esercizio di potere su quest’ultima. L’esercizio di potere è assoluto, poiché la vittima è roba, possedimento, oggetto spersonalizzato.
Il fallimento
E se un uomo può reputare una donna roba sua allora dobbiamo accettare che il lungo e tardivo percorso verso l’equità che in Italia ha visto l’abrogazione del reato di adulterio semplice e di relazione adultera (1968, 1969), la riforma del diritto di famiglia (1975), l’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), l’entrata in vigore dello stupro come delitto contro la persona anziché contro la moralità pubblica e il buon costume (1996), l’introduzione del reato di stalking (2009) non solo è deficitario, ma ha in buona parte fallito.
Al di fuori del territorio del diritto, che da solo non può cambiare il corpo intero di un sistema, essendone un arto, la cultura del paese prevede che le donne vivano in un regime di costante minaccia. Quindi, sulla cultura del paese è necessario operare. Sulla trasmissione di una conoscenza che smantelli l’incubo che abitiamo. Che decostruisca la gerarchia di genere e che restituisca il senso dell’esistenza e della mortalità altrui. Non so davvero se saremo in grado di farlo.
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