A guardarla dall’alto di uno dei suoi nuovi grattacieli, aridi, asimmetrici, Palermo offre nell’insieme una visione maestosa; ma laggiù al fondo, dentro questo enorme corpo che non si ferma mai, c’è una continua corruzione. Sembra un brulicare di attività dalle quali debbano scaturire opere imponenti, ma c’è una cosa per la quale lottano tutte queste energie, ed è la conquista del potere
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania
A guardarla dall’alto di uno dei suoi nuovi grattacieli, aridi, asimmetrici, Palermo offre nell’insieme una visione maestosa: le cupole e le guglie delle cattedrali, i monumenti ineguagliabili, i giardini meravigliosi, le grandi strade nereggianti di automobili, i vigili urbani monumentali, le sagome gigantesche del porto, i transatlantici alla fonda, i solenni palazzi di governo; ma laggiù al fondo, dentro questo enorme corpo che non si ferma mai, c’è una continua corruzione.
Sembra un brulicare di attività dalle quali debbano scaturire opere imponenti, ma c’è una cosa per la quale lottano tutte queste energie, ed è la conquista del potere. Per un pomeriggio ci ospitò nella sua casa un gentiluomo la cui famiglia da almeno cinquecento anni è radicata a Palermo.
Non era un principe, ma suo padre lo era stato, era un bell’uomo alto, con la pelle tenera e quasi gialla, ma d’un giallo opaco nobilissimo come il colorito di certi antichi ritratti da sagrestia, il volto lungo, le grandi ciglia grigie, una bocca minuscola con tutti i denti intatti, ciuffi di pelo sprezzanti che gli uscivano dalle orecchie e dalle narici. Parlavamo in un salotto dove ogni cosa, se era autentica come appariva, aveva un valore di milioni; arazzi, tappeti, minuscoli orologi a pendolo sotto campane di cristallo, lampadari di maiolica dipinta, quadri, pipe, stucchi.
Ogni cosa era perfettamente al suo posto e da tanto era al suo posto che sulle pareti, o sui mobili, o sul pavimento, si scorgevano le ombre dell’umido e un impercettibile alone di polvere.
Con grande malinconia il principe mi parlò di Palermo. Disse: «Chi avrebbe dovuto dare a Palermo il tono, la ricchezza, anzi la felicità d’essere una capitale? Chi avrebbe dovuto risolvere i problemi? Coloro che arrivano a Palermo? Via, sono dei provinciali che non hanno il senso, nemmeno la proporzione dei grandi problemi. A casa loro, nelle loro famiglie, saranno magari gentiluomini, magari eruditi e solerti, ma qui arrivano solo come predoni. Palermo è un luogo dove c’è tutto da prendere, è una capitale nemica da saccheggiare e basta. L’unica cosa che hanno portato sono stati i palazzi, migliaia di palazzi che hanno imprigionato l’antica città. Venivano qui ed avevano bisogno di case, ed altri nomadi arrivavano a costruirgliele, altri ancora arrivavano a mettere su bottega per commerciare e vendere. Un centinaio di miliardi pietrificati alla periferia e duecento assassinii in mezzo alle strade. Hanno fatto lavorare trentamila operai; ma li hanno strappati dalle campagne, hanno devastato tutta l’economia agricola ed il giorno in cui non ci saranno più case da costruire, poiché questo giorno dovrà fatalmente arrivare, questi trentamila disoccupati ce li ritroveremo dinnanzi con gli occhi sbarrati, come a domandarci che inganno sia mai questo. Né potranno più tornare nelle campagne che hanno abbandonato. I problemi perciò chi avrebbe dovuto cercare di risolverli se non gli stessi palermitani? La trasformazione dell’agricoltura, la industrializzazione della zona, le iniziative turistiche, il piano regolatore della città, la modernizzazione dell’economia, le nuove fabbriche, i posti di lavoro. In questa città vivono ancora cinquantamila persone in condizioni umane che suonano vergogna a tutta la nazione».
Il gentiluomo si riposò. Guardò le sue cose in quella stanza, con una rinnovata malinconia, ma anche con la soddisfazione che ogni cosa fosse esattamente al suo posto come egli era stato abituato a vederla da quando era nato. Aguzzò lo sguardo come se stesse cercando di comporre dinnanzi ai suoi occhi le sembianze di un personaggio che egli conosceva bene.
Continuò: «Ma il palermitano i suoi problemi non li ha risolti. Probabilmente non gliene importa nemmeno. Il palermitano si è convinto che non esiste cosa al mondo che valga la pena di essere tentata o conquistata, né l’arte, né l’iniziativa industriale, né la ricerca scientifica. Niente serve a niente, poiché c’è sempre una forza più alta e fatale che determina tutto. Non serve a niente nemmeno la devozione, la probità, la preparazione, la santità: sono inganni momentanei dell’animo e basta. C’è una sola cosa che conta e che vale la pena di conquistare poiché è appunto quella forza che determina tutte le altre cose. È la potenza politica». Fece un sospiro.
Fissò con tenerezza quel piccolo prodigio di orologeria racchiusa entro una campanula di vetro, lo prese in mano per lustrarlo adagio, con lo stesso gesto con cui si solletica adagio un cagnolino, percosse con l’unghia il cristallo e se lo accostò all’orecchio per udirlo ronzare.
Si fece serio: «Non il denaro intendiamoci. Il denaro è solo una componente della potenza politica, la più volgare. Il denaro è sporco, insudicia, è disagevole, distrae. Voglio dire proprio la potenza che è fatta di mille cose: delle amicizie, delle persone devote che sono state poste nelle posizioni di comando, delle decine di voti di cui si dispone in sede di assemblea. La potenza va dalla possibilità di influire sulle leggi, cioè di fare le leggi che più convengono agli individui, alla possibilità di stringere pubblicamente la mano ad un presidente della Regione in una cerimonia ufficiale. Tutto quello che accade a Palermo è solo una lotta per conquistare la potenza, la rispettabilità, l’influenza, la devozione: la potenza negli ambienti politici, nelle presidenze dei grandi enti pubblici, in cima ai grandi istituti bancari, nei corridoi degli assessorati, nei saloni del Comune o della Provincia, nelle segreterie dei ministeri romani. Ed infine naturalmente anche il denaro. A che serve la potenza? Sopratutto serve a se stessa, allo stato di raggiunta felicità che essa dona all’individuo, alla sensazione di essere più profondamente vivo di tutti gli altri. Tutti lottano per questo, dovunque, solo che al palermitano tutto questo è congeniale, poiché il palermitano è convinto di essere migliore degli altri. E quando la situazione dimostra il contrario vuole dire che c’è tradimento. Per cominciare è già potenza questo senso di superiorità che non è mai espresso con volgarità e disprezzo, ma con benevolenza. Il palermitano parla poco poiché difficilmente dà confidenza, ma se parla è magniloquente poiché anche questo è un segno di potenza. I palermitani nutrono lo stesso sentimento degli inglesi verso il resto del continente europeo. Se potessero non giocherebbero nemmeno a pallone con gli altri. Il fatto che altri arrivino addirittura a saccheggiare le loro case, a pretendere di governarli, è inaudito. Mentre accade tutto questo, come si può avere il tempo di pensare alla soluzione dei problemi? Non si capiva se parlasse con ironia o se fosse assolutamente convinto di quello che diceva.
Si animò: «Palermo è la capitale, Palermo ha la più grande università, è l’unica sede in tutto il Sud di una facoltà di ingegneria, ha il porto più grande dell’intero Mediterraneo centrale. Eppure la più grande zona industriale siciliana è sorta a dieci chilometri da Siracusa. I siracusani sono più buoni, dite più onesti, laboriosi, miti. Sono degli sciocchi, si contentano d’essere operai e manovali negli stabilimenti industriali che fanno guadagnare montagne di denaro ai milanesi, e che sono dirette solo dai milanesi. Qui se i milanesi vogliono fare una fabbrica debbono assumere chi diciamo noi e mettere alla direzione un nostro amico. Altrimenti niente…» Finalmente scoppiò in una risata.
Prese di nuovo quella campanula e con l’unghia del medio sembrò menarle un colpo rabbioso per spaccarla, e invece la sfiorò appena, flebilmente, se la portò di nuovo all’orecchio per godersi quel tintinnio.
Mi fece visitare la sua casa, deserta, immensa. Una serie di stanze e sale dove ogni cosa aveva un valore di milioni, di decine di milioni. E non c’era una cosa che non fosse nell’angolo giusto, alla distanza giusta da tutte le altre, le chicchere, le porcellane, i quadri, le poltrone, le statuine, i tappeti, il clavicembalo, gli specchi, i fucili, persino i calamai con l’inchiostro o i colori degli affreschi nel soffitto. Il gentiluomo ebbe un riso di disprezzo, un riso un po’ sgangherato. Disse: «Volevano questa casa per farne la sede di un ente pubblico. Immaginate uno di quei piccoli avvocati politici che arrivano dall’interno dell’isola, verbosi, spiritati, un po’ sporchi, seduto poi qua, dietro questo arazzo... Talvolta io mi sono preso il gusto di andare con una di quelle donne che frequentano gli alberghi di lusso e sono le amanti quindicinali di quegli uomini politici. Bisogna sentire quello che raccontano...».
Quella stessa sera all’una dopo mezzanotte, nella «piazza delle vergogne», incontrai quattro giovani bizzarri che stavano seduti lungo il bordo della fontana, accanto ad una grande statua di donna nuda. Tre di quei giovani avevano i capelli lunghi fin sull’omero, e il quarto invece aveva una piccola testa rapata. Erano così languidi, così amichevoli, che sembravano omosessuali.
Invece erano capelloni: suonavano la chitarra, il basso, la batteria e il quarto cantava. Si chiamavano Domenico Scalici di 18 anni, studente d’avviamento, Gianni Ricci di 18 anni, studente dell’industriale, Andrea Di Franco di 18 anni, odontotecnico e Marco Murri di 19 anni, meccanico.
Non si conoscevano nemmeno, si erano fatti crescere i capelli ognuno per conto suo: la gente li sfotteva. Un giorno Domenico aveva incontrato Gianni e tutti e due si erano messi insieme alla ricerca di un terzo che avesse i capelli lunghi per formare un trio musicale. Avevano trovato Marco. Ma ci voleva qualcuno che cantasse, e allora avevano cercato ancora un quarto capellone, e non ne avevano trovato.
Alla fine avevano convinto Andrea a farsi crescere i capelli. Bisognava aspettare quattro mesi. «Vogliamo suonare canzoni “beat” e manifestare la nostra ribellione!» dissero. Palermo dormiva quieta, sembrava quasi paga di tutte le cose che aveva fatto durante la giornata. L’unico segno di ribellione era questo.
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