Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci di queste della sentenza della Corte d’appello sulla condanna del senatore Tonino D'Alì ex senatore ed ex sottosegretario agli interni di Forza Italia, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.


Innanzitutto (a proposito degli ulteriori elementi indicativi della suddetta stabile e multiforme disponibilità dell'imputato verso Cosa Nostra), come si è già lumeggiato, Sinacori Vincenzo (cfr. pag. 91 della sentenza di primo grado) ha evidenziato gli strettissimi rapporti, risalenti nel tempo, tra la famiglia D'Alì e la famiglia Messina Denaro (Francesco -padre di Matteo- da lungo tempo era campiere del fondo Zangara. già prima che pervenisse in proprietà all'imputato, ed ha mantenuto tale "incarico" pure quando il fondo medesimo è entrato nel patrimonio di D'Alì Antonio), tant'è che "se qualcuno aveva bisogno” – ovviamente il Sinacori faceva riferimento ai sodali - “poteva andare a chiedere ai Messina Denaro di intercedere presso i D'Alì” (v. pag. 133 della sentenza di primo grado): «Che io sappia -ha continuato il Sinacori- il Virga (Vincenzo, capomafia di Trapani), se aveva bisogno di qualcosa dai D'Alì si rivolgeva ai Messina Denaro... poteva capitare, se aveva bisogno dei D'Alì per qualsiasi cosa, magari per un favore, o politico o di lavoro, di qualsiasi cosa, lui sapeva che poteva andare dai Messina Denaro ... perché era risaputo che i Messina Denaro con i D'Alì erano in buonissimi rapporti».
Ciò è importante anche perché evidenzia i rapporti strutturati ed esistenti da tempo tra Virga Vincenzo e l'odierno imputato nonché il fatto che i medesimi rapporti fossero quantomeno originariamente- mediati dai Messina Denaro, circostanza che non poteva che sottolineare, agli occhi del D'Alì, anche la "mafiosità" del Virga.

D'altra parte, il fatto che Messina Denaro Francesco, padre di Matteo, fosse il campiere del suddetto fondo Zangara, anche dopo che lo stesso immobile era giunto – per successione all'odierno imputato, corrobora le dichiarazioni del Sinacori.
Le dichiarazioni del Sinacori - relative agli stretti rapporti del D'Alì con Cosa Nostra anche prima della sua decisione di candidarsi alle elezioni per il Senato della Repubblica – trovano conferma in quelle di Giuffrè Antonino (sulla cui attendibilità si condividono le positive argomentazioni del gup riportate alle pagine 149 e 150 della sentenza di primo grado, che devono ritenersi in questa sede ripetute e trascritte), il quale ha affermato di aver saputo da mafiosi dello spessore di Provenzano Bernardo (capo assoluto di Cosa Nostra insieme a Riina Salvatore) e di "Mastro Ciccio" (Messina Francesco, esponente di vertice della Cosa Nostra del trapanese, insieme ad Agate Mariano ed a Messina Denaro Francesco, padre di Matteo) che il D'Alì era "vicino ad uomini d'onore del trapanese" (e tali discorsi sarebbero stati effettuati dal 1985 al 1992), specificando che "vicino" voleva dire che "si facevano favori" (cfr. pag. 141 della sentenza di primo grado) e che era persona di "fiducia".

In sostanza, Messina Francesco si vantava col Provenzano di avere "nelle mani” il D'Alì e cioè “a disposizione" (cfr. pag. 143 della sentenza di primo grado). Tra l'altro, sempre secondo il Giuffrè, quegli esponenti di rilievo di Cosa Nostra consideravano il D'Alì un “personaggio importante" e quindi una pedina di rilievo nelle loro dinamiche. In altri termini, già dalla seconda metà degli anni '80 a dire del Giuffrè; il D'Alì aveva rapporti (che si declinavano in termini di scambio di favori) con esponenti di assoluto rilievo in Cosa Nostra - come Provenzano Bernardo e Messina Francesco, ai quali devono aggiungersi (per le considerazioni in precedenza esposte e per quelle che seguono) Messina Denaro Francesco, Messina Denaro Matteo, Riina Salvatore, Agate Mariano nonché Virga Vincenzo, vale a dire il Gotha di Cosa Nostra - ed era a loro "disposizione".
Facendo sempre riferimento all'esame della fase antecedente all'ingresso in politica del D'Alì (fase importante sia in sé, per le relazioni già maturate con i massimi esponenti del sodalizio mafioso, sia perché fornisce una corretta "lente" e chiave di lettura di tutte le vicende successive), si pongono nel medesimo solco delle dichiarazioni del Sinacori e del Giuffrè, corroborandole, le dichiarazioni del Birrittella e del Treppiedi (tra l'altro, poiché le dichiarazioni del Sinacori e del Giuffrè sono coerenti con quelle dei due soggetti appena citati, l'attendibilità di questi ultimi è corroborata dai medesimi Sinacori e Giuffrè).
II Birrittella, infatti, ha dichiarato di aver saputo da Pace Francesco (capo- famiglia di Trapani agli inizi del XXI secolo, del quale lo stesso Birrittella era "luogotenente"), da Virga Vincenzo (capo indiscusso della famiglia mafiosa di Trapani prima del Pace) e da Genna Francesco (altro esponente di spicco della Cosa Nostra trapanese) che il D'Alì, già prima del 1994 (cioè prima dell'inizio della sua esperienza politica), era "a disposizione" di Cosa Nostra, pure nella sua attivita di banchiere, garantendo ai sodali un facile accesso al credito (cfr. pagg. 173 e 174 della sentenza di primo grado nonché analoghe affermazioni a pagg. 25 e 26 del verbale della sua audizione del 10 aprile 2019).
A sua volta, il Treppiedi ha affermato di aver ricevuto una confidenza dallo stesso D'Alì. il quale gli aveva rivelato --elemento invero ingiustificatamente negletto nella, sentenza di primo grado- che nella Banca Sicula (nella quale lo stesso D'Alì ed i suoi familiari avevano rivestito ruoli apicali), in epoca antecedente e non precisata dall'imputato, aveva occultamente investito ingenti capitali -dietro lo "schermo" dello stesso D'Alì- anche "tale Agate ... di Mazara del Vallo" (invero il Treppiedi non si ricordava se l'individuo si chiamasse Agate o Acate ma dalla nota di P.G. del 13 Gennaio 2021 risulta che non vi fossero a Mazara del Vallo "soggetti residenti o non residenti recanti il cognome Acate"), "legato al mondo della marineria, dell'imprenditoria marittima” (cfr. pag. 33 della trascrizione della deposizione del Treppiedi del 17 settembre 2020), laddove tali riferimenti non possono che essere agevolmente ricondotti ad Agate Mariano e/o a suo fratello Giovan Battista, esponenti di rilievo della "famiglia" mafiosa di Mazara del Vallo (Treppiedi: "Mentre ci trovavamo a New York parlammo di nuovo della Banca Sicula con il D'Alì. Io gli dissi: “Avete preso bene allora dalla vendita della Banca Sicula".

Lui mi rispose: "Non lasciarti impressionare da quella cifra, in realtà le somme erano minori, perché c'erano delle spettanze a cui fare fronte". Disse questo inarcando il sopracciglio come a dire che vi fossero stati degli impegni cui, con la vendita della propria quota del pacchetto azionario, doveva fare fronte. II D'Alì mi accennò ... ad una compagine imprenditoriale di Mazara del Vallo che aveva investito dei capitali nella Banca Sicula in maniera non ufficiale. Il D'Alì mi disse che si trattava di un gruppo di soggetti fra cui tale Agate 0 Acate di Mazara del Vallo. In proposito il D'Alì aggiunse che quando era presidente della Banca Sicula la sua abilità fu quella di tenere unita non solo la compagine societaria ma anche i soggetti che erano intervenuti con capitale nel patrimonio della banca.

Mi incuriosì la circostanza che il D'Alì ammettesse che vi era una discrepanza fra i soci ed i soggetti che avevano investito capitali nella banca pur non rivestendo la qualità di soci”).

All'evidenza, la disponibilità del D'Alì ad occultare investimenti nella Banca Sicula di esponenti di rilievo in Cosa Nostra come gli Agate (e poi di liquidare a costoro le loro spettanze, laddove comunque vengono in rilievo partecipazioni per l'appunto occulte) si pone in piena armonia con il complesso di elementi (e di corrispondenti condotte dell'imputato) fin qui esposti e denotano una totale, costante e multiforme disponibilità dell'imputato verso una tale moltitudine di esponenti di assoluto rilievo in Cosa Nostra da travalicare i rapporti personali (nel senso che sarebbe riduttivo declinare una tale disponibilità in termini di rapporti individuali) per sconfinare in una disponibilità (perdurante e multiforme) dell'imputato verso il sodalizio in quanto tale.

L'insieme di tali elementi tutti concordanti nel senso di un D'Alì “a disposizione" di Cosa Nostra già durante la sua attività di banchiere non viene minimamente smentito dalle prove offerte dalla Difesa dell'imputato, in base alle quali lo stesso D'Alì non aveva (dal punto di vista formale) poteri per disporre, da solo, di mutui in favore di soggetti mafiosi o indicati da Cosa Nostra o comunque vicini al sodalizio.

Ed invero, risulta comunque che sia il D'Alì sia suoi stretti congiunti hanno rivestito, con continuità, ruoli apicali all'interno della Banca Sicula, per cui è ovvio che, in ogni caso, quand'anche l'imputato non avesse potuto procedere da solo ad effettuare operazioni bancarie funzionali a favorire Cosa Nostra, comunque poteva spendere in favore del sodalizio la propria indubbia influenza (di fatto), così portando pure gli altri soggetti che rivestivano ruoli di responsabilità all'interno della medesima banca (questi ultimi magari ignari di agevolare Cosa Nostra) ad assecondare i suoi (sempre del D'Alì) desiderata.

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