Dalle dichiarazioni rese all’udienza del 22 aprile 1997 dal collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori si evince che altri esponenti di vertice di “Cosa Nostra”, preoccupati per la mancanza di riservatezza del Sangiorgi, avevano progettato di ucciderlo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro–tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado che ha assolto l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. La sentenza di secondo grado, confermata in Cassazione, ha accertato invece che – fino alla primavera del 1980 – Andreotti aveva avuto rapporti con i boss Cosa Nostra
Il fatto che il Sangiorgi abbia confidato circostanze di tale importanza a persone appena conosciute non può stupire, se si tiene conto delle peculiari connotazioni caratteriali del medesimo soggetto, incline alla loquacità ed incapace di assumere un costante atteggiamento di riservatezza nelle normali vicende della vita di relazione anche in ordine ad argomenti di notevole delicatezza coinvolgenti i suoi rapporti con esponenti di “Cosa Nostra”.
Sul punto, sono significative le seguenti osservazioni formulate da Giovanni Brusca all’udienza del 30 luglio 1997:
Brusca G.: Gaetano Sangiorgi, che l’ho scoperto nell’ultimo periodo, un po’ chiacchierone.
P.M. Scarpin.: Che vuol dire un poco chiacchierone?
Brusca G.: Che si vantava, si vantava, un po’... noi lo chiamavamo un po’ pazzo, un po’ vanitoso, cioè non era una persona... anche se buono d’animo, però aveva tutti questi... questi, diciamo, attributi, aggettivi, chiamiamoli come si volevano, verso Gaetano Sangiorgi.
P.M. Scarpin.: Cioè Gaetano Sangiorgi era un uomo d’onore riservato, nel senso che sapeva tenere i segreti?
Brusca G.: No, completamente o perlomeno quelli di un certo livello li... ipoteticamente li doveva tenere riservati, ma poi scoprivamo invece che lui parlava a ruota libera.
P.M. Scarpin.: Ci può fare degli esempi di quando avete scoperto che Gaetano Sangiorgi era uno che parlava a ruota libera?
Brusca G.: Per esempio lui se ne andava con il... se ne andava a MAZARA e faceva capire la luna...
Presidente: Faceva?
Brusca G.: Capire la luna.
P.M. Scarpin.: Che vuol dire, scusi?
Brusca G.: Che doveva... che doveva fare uscire soldi a suo cognato per farli avere ai mazaresi, gli ha regalato infatti qualche 50 milioni, non so se di tasca sua o tramite i cognati, poi parlava
con il cugino... il cugino o cognato, ma credo cugino, un certo... questo è un rappresentante, uno che aveva farmacia, aveva a che fare con farmacia...
P.M. Scarpin.: Sirchia per caso?
Brusca G.: Sirchia, sì. Cugino credo che sia, aveva a che fare con farmacie, si ci andava a vantare che lui aveva... si vedeva con me, parlava con me...
P.M. Scarpin.: Scusi, ma questo Sirchia è un uomo d’onore?
Brusca G.: No.
P.M. Scarpin.: E com’è che Sangiorgi, uomo d’onore, si andava a vantare con Sirchia, che è un farmacista, del fatto che si incontrava con lei Brusca, uomo d’onore? Mi faccia capire.
Brusca G.: No, perché il Sirchia, tramite il cugino, cioè il Sirchia tramite lo zio Ignazio Salvo doveva fare avere una farmacia a mio fratello, tramite concorso, al che il Gaetano Sangiorgi, quando viene a conoscenza, va dal cugino, credo che siano cugini e gli va a fare premura per dire ti devi spicciare, muoviti per questa cosa, non te lo dimenticare, il progetto lo dobbiamo sempre portare avanti, cioè lo dobbiamo sempre portare avanti, ne che per quanto non c’è più lo zio ti devi dimenticare di questo fatto e quindi... senza che nessuno lo aveva autorizzato. Poi veniva da me e dice «ma c’è questo fatto?» Gli ho detto sì. Dice io a mio cugino l’ho massacrato di parole in maniera che si svegliasse.
Dalle dichiarazioni rese all’udienza del 22 aprile 1997 dal collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori si evince che altri esponenti di vertice di “Cosa Nostra”, preoccupati per la mancanza di riservatezza del Sangiorgi, avevano progettato di ucciderlo. Al riguardo, il Sinacori ha affermato:
«siccome nei primi del ’94, nei primissimi del ’94, il ricordo che mi viene adesso è che io ho avuto un incontro con il Matteo Messina Denaro a Palermo, per problemi nostri, e in quell’occasione il Matteo Messina Denaro mi disse che... che a lui avevano detto, Leoluca Bagarella, che volevano uccidere a Tani Sangiorgi, e mi aveva detto Matteo a me, mi aveva detto, dice: “se viene Tani, tenitillo”, “tenitillo” nel senso... “uccidilo”.
Io, siccome non vedevo il motivo perché dovevo uccidere Tani Sangiorgi, gli ho detto: “Matteo vedi che... perché lo dobbiamo uccidere?”, lui mi dice che lo dovevamo uccidere... no, perché anche lui non era d’accordo ad uccidere, erano i palermitani che, mi dice Matteo, i palermitani, siccome si spaventavano che avevano dato delle confidenze a Tani, un pochettino delicate, adesso si preoccupavano... siccome già si era pentito, Santino Di Matteo e La Barbera, loro si preoccupavano che ci poteva essere qualche mandato di cattura per Tani... per Tani Sangiorgi, e siccome loro non avevano fiducia, non avevano più fiducia in Tani Sangiorgi, dice, dice... e ci dissi: “ma così, a tutti possiamo uccidere noi, per questo motivo, io se viene non lo faccio, se lo fanno loro”, Matteo dice: “allora, fai finta di niente” e così è stato.
Poi, fortunatamente per Tani, l’hanno arrestato perché Tani già era morto, (...) cioè i palermitani lo uccidevano a Tani (...) a me, personalmente, la richiesta perviene da Matteo Messina Denaro, però, il Matteo Messina Denaro mi dice che glielo dice a lui il Leoluca Bagarella; (...) non ricordo (...) se mi disse pure (...) Giovanni Brusca».
Il collaborante ha chiarito che la preoccupazione degli esponenti mafiosi palermitani si riferiva alle notizie di cui il Sangiorgi era in possesso con riguardo all’omicidio di Ignazio Salvo ed al tentato omicidio dell’on. Claudio Martelli.
Alla luce dei suesposti elementi di convincimento, non appare per nulla inverosimile che il Sangiorgi abbia parlato di un argomento assai delicato con una persona che, sebbene appena conosciuta, aveva stabilito con lui un rapporto di simpatia e confidenza.
Risultano, poi, perfettamente comprensibili le ragioni che avevano indotto i coniugi La Forgia a non rivolgersi all’autorità giudiziaria nel periodo immeDiatamente successivo all’incontro con il Sangiorgi.
Sul punto, occorre infatti premettere che, per il La Forgia, una forte remora poteva essere costituita dalla consapevolezza che, se avesse deciso di riferire al pm le circostanze comunicategli dal Sangiorgi, avrebbe tradito la fiducia di una persona che gli aveva fatto simili confidenze in virtù di un rapporto estemporaneo ma improntato a corDialità e simpatia.
Né può trascurarsi di considerare che il La Forgia sarebbe rimasto esposto sia ad una probabile smentita da parte della sua fonte di riferimento, sia alle eventuali critiche di avversari politici che avrebbero potuto accusarlo di voler strumentalizzare, in vista delle sue aspirazioni politiche, la deposizione resa in un procedimento penale necessariamente destinato ad un’ampia notorietà.
Non meno comprensibile è il motivo che ha indotto la Lo Jacono, alcuni anni dopo, a troncare ogni esitazione e ad offrire all’autorità giudiziaria il proprio contributo conoscitivo; è, infatti, perfettamente naturale che la teste sia stata colta da un moto di indignazione (ed abbia quindi assunto una ferma e netta risoluzione di collaborare pienamente con la giustizia) alla notizia che il Sangiorgi negava in sede dibattimentale quanto aveva precedentemente confidato nell’ambito di un rapporto di conoscenza privata, e, per giunta, accusava i rappresentanti dell’Ufficio del Pubblico Ministero di averlo spinto a rendere determinate dichiarazioni.
In proposito, deve rilevarsi che la decisione della Lo Jacono di rivolgersi al Pubblico Ministero presso il Tribunale di Bari è stata attuata pochi giorni dopo l’udienza svoltasi il 28 febbraio 1997 davanti alla Corte di Assise di Perugia nell’ambito del processo per l’omicidio di Carmine Pecorelli, nella quale il Sangiorgi aveva tenuto il contegno descritto dalla teste (arrivando addirittura ad affermare, con riferimento al verbale delle dichiarazioni rese il 21 luglio 1993 davanti al pm di Palermo: “questo verbale è il frutto di una mia collaborazione forzata con i Procuratori per il fatto che mi era stato richiesto in maniera esplicita di parlare e di dire qualcosa su Andreotti”, e sostenendo, in modo assolutamente inverosimile, di avere riferito al P.M. quanto segue: “senta Dottor Natoli, io non conosco Andreotti, io non ho assolutamente nulla da dirla, sono a sua completa disposizione, lei può scrivere tutto quello che vuole, io le firmo tutto quello che vuole, io le dico tutto quello che so purché lei mi lasci andare e mi faccia tornare a casa tranquillo”).
Deve inoltre osservarsi che le motivazioni della scelta collaborativa della Lo Jacono non possono in alcun modo ricollegarsi a suoi interessi personali ovvero a vantaggi di qualsiasi genere.
Quanto all’attendibilità della notizia riferita dalla teste, occorre premettere che resterebbe assolutamente inspiegabile l’assunzione, da parte del marito avv. La Forgia, di un atteggiamento mendace nei suoi confronti, non ravvisandosi alcun motivo che potesse indurlo a fornire alla moglie una falsa ricostruzione del contenuto delle confidenze fattegli dal Sangiorgi.
Né può ritenersi che la teste abbia percepito inesattamente le parole del coniuge, poiché le difficoltà uditive (peraltro non gravi) che la stessa ha manifestato, se presenti anche all’epoca del colloquio, dovevano essere ben note al La Forgia, il quale, conseguentemente, doveva certamente utilizzare il tono di voce più adatto a farsi comprendere dalla moglie quando voleva comunicarle qualcosa di importante.
Va altresì osservato che la teste ha mostrato di serbare un ricordo assai preciso del racconto fattole dal coniuge; è, del resto, perfettamente logico che le circostanze riferite la abbiano colpita, ingenerando in lei la convinzione di essere a conoscenza della verità su una vicenda che formava oggetto di controversia in un procedimento penale di notevole rilevanza e diffusa notorietà.
La teste ha mostrato di avere nettamente distinto, nella propria memoria, le circostanze che formavano oggetto del racconto de relato del marito dalle vicende a lei esposte dalla sig.ra Angela Salvo. Si tratta di ricordi assolutamente indipendenti ed insuscettibili di influenze reciproche.
Tra le vicende riferite alla Lo Jacono da Angela Salvo, qualcuna appare non rispondente al vero. Ciò deve dirsi, in particolare, per l’affermazione secondo cui Antonino Salvo sarebbe morto in carcere. Deve, tuttavia, osservarsi che Angela Salvo aveva un preciso interesse a colorare il proprio racconto di particolari idonei a suscitare nell’interlocutrice un sentimento di compassione, per rafforzare il rapporto personale sorto tra di loro nel corso del soggiorno a Stresa.
La credibilità di quanto confidato dal Sangiorgi al La Forgia trova, invece, un sicuro supporto nell’assoluto disinteresse della fonte di riferimento. Non si vede, infatti, quale vantaggio potesse trarre il Sangiorgi dalla narrazione ad altri di un episodio come quello del regalo inviatogli dal sen. Andreotti, tanto più che egli aveva già reso, sul punto, dichiarazioni difformi all’autorità giudiziaria.
È dunque ragionevole ritenere che, nel caso in esame, nel Sangiorgi l’estroversione, la loquacità, e la connessa incapacità di mantenere riservate talune vicende assai delicate di cui era a conoscenza, abbiano prevalso sulla rappresentazione dei rischi cui il medesimo andava incontro comunicando ad altre persone il reale svolgimento di fatti che egli in precedenza aveva ricostruito in termini diversi davanti agli inquirenti.
Del resto, il Sangiorgi ha assunto, in altre circostanze, un contegno del tutto analogo, come si evince dalle deposizioni dei collaboratori di giustizia Gioacchino Pennino e Vincenzo Sinacori.
Il Pennino all’udienza del 15 dicembre 1995, dopo avere specificato di avere incontrato nel 1980 i cugini Salvo, i quali gli furono ritualmente presentati come “uomini d’onore” e gli chiesero di fornire suggerimenti tecnici al Sangiorgi che aveva aperto un laboratorio di analisi, ha precisato che anche il Sangiorgi gli fu presentato ritualmente nel 1981 nel corso di un incontro presso gli uffici di Antonino Salvo, ha evidenziato di avere instaurato rapporti corDiali e frequenti con i Salvo e di avere intrattenuto con il Sangiorgi “rapporti professionali gradevoli” che si erano sviluppati anche sul piano personale, ed ha dichiarato quanto segue:
Pm Scarp.: (...) ci sono stati incontri con i cugini SALVO, con altri della famiglia, successivamente all’87?
Pennino G.: sì, con Tani Sangiorgi.
Pm Scarp.: vuole raccontare?
Pennino: io senta mi sono incontrato con Tani, anche perché svolgeva la mia stessa attività, eravamo in buoni rapporti e, soprattutto questi incontri maturarono nel ’93 quando io avevo lasciato già la mia attività professionale, perché lavorando mi era difficile a comunicare, e mi recavo spesso in centro a passeggiare.
Mi sono recato alcune volte in... presso il suo studio che era sito in via Principe di Belmonte e parlando dei nostri problemi professionali perché allora la nostra attività era nell’occhio del ciclone, c’erano problemi. Fra le altre cose lui mi ebbe a dire... mi ebbe a dire che, verso il novembre, che la D.I.A. aveva fatto una perquisizione a casa sua e cercava un regalo che gli avrebbe fatto... gli avrebbe fatto l’On. Andreotti nel caso del suo matrimonio allora.
Anzi mi disse che lui l’aveva imboscato, l’aveva nascosto. Si trattava di un vassoio e lui indicava che era grande così con le braccia, era grande e l’ho imboscata, io onestamente siccome lo volevo bene, e..., gli dissi: “ma perché tu ti devi nemicare questa gente? Perché non gliene dai...” insomma che ti interessa di Andreotti, non devi dare nessuna risposta, completamente, assolutamente.
Pm Scarp.: dottore le disse Sangiorgi di che materiale era quel vassoio?
Pennino G.: un vassoio d’argento. (...)
Avv. Sbacchi: senta, lei poc’anzi nel corso del suo esame ha detto di avere incontrato Tani Sangiorgi, cito pressoché testualmente il nome, ha detto di averlo incontrare in un certo nel corso del Dialogo, lei avrebbe detto: "perché devi metterti contro costoro", in riferimento al fatto che Sangiorgi aveva nascosto qualcosa.
Pennino G.: sì sì.
Avv. Sbacchi: ecco, a chi intendeva riferirsi? Quando dice contro costoro?
Pennino G.: alla Dia.
Avv. Sbacchi: alla Dia.
Pennino G.: sì, perché lui mi aveva detto che aveva avuto una perquisizione alla Dia.
Avv. Sbacchi: contro costoro, e che timori doveva avere Sangiorgi in que...
Pennino G.: timori...
Avv. Sbacchi: cioè, perché doveva mettersi contro, cioè che complicazione avrebbe avuto?
Pennino G.: perché non gli faceva avere il piatto, e invece di inimicarseli l’aveva nascosto.
Avv. Sbacchi: ah, si trattava di inimicarsi quindi con le Forze dell’Ordine.
Pennino G.: certo
Dalle dichiarazioni del Pennino si evince, dunque, che intorno al mese di novembre 1993 il Sangiorgi gli riferì di avere nascosto il vassoio d’argento regalatogli dal sen. Andreotti in occasione del suo matrimonio, aggiungendo che per la ricerca di questo oggetto era stata eseguita, nei suoi confronti, una perquisizione domiciliare ad opera di personale della D.I.A..
Le suesposte circostanze riferite dal Pennino trovano univoco e puntuale riscontro nella deposizione resa all’udienza del 22 aprile 1997 dal collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori.
Il Sinacori ha riferito di avere partecipato, unitamente ad Andrea Manciaracina (nella loro qualità di “reggenti” del “mandamento” di Mazara del Vallo), intorno alla fine del 1993, ad una riunione di esponenti mafiosi della provincia di Trapani (tra cui il capo del “mandamento” di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, il capo del “mandamento” di Trapani Vincenzo Virga, un rappresentante del “mandamento” di Alcamo, e tutti i componenti della “famiglia” di Salemi, capeggiata da Gaspare Casciolo), organizzata in un fondo rustico sito in territorio di Salemi per dirimere alcuni contrasti di natura economica insorti tra Gaetano Sangiorgi ed Antonio Salvo (nipote di Ignazio Salvo), entrambi “uomini d’onore” della “famiglia” di Salemi.
Dopo la fine della riunione il Sangiorgi, appartatosi con il Sinacori e con il Messina Denaro, riferì di avere subito, alcuni mesi prima, una perquisizione tendente alla ricerca di un vassoio che però non avrebbe potuto essere trovato in quanto egli lo aveva fatto scomparire; si trattava del vassoio regalatogli dal sen. Andreotti in occasione delle sue nozze. Il Sangiorgi aggiunse che “questo processo se lo era cercato Andreotti”, al quale sarebbe bastato ammettere il suo rapporto di conoscenza – effettivamente esistito – con i cugini Salvo per evitare di essere sottoposto al procedimento penale.
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