Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la prima serie dedicata alla sentenza della corte d’assise di Bologna che ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini per la strage di Bologna, il Blog mafie pubblica una seconda serie che si concentra sul ruolo dei mandanti


Giungiamo così al punto centrale dell’analisi. Abbiamo fin qui esaminato una serie di premesse che spiegano in una diversa prospettiva la causale della strage, legandola a prospettive politico-strategiche per le quali erano state stanziate imponenti somme di denaro. Abbiamo visto pure nella parte descrittiva delle fonti probatorie orali e documentali come gli intrecci tra destra stragista, servizi e centri di potere occulto siano una costante nella storia della strategia della tensione che continua fino al 1980, sia pure in una diversa prospettiva strategica rispetto a quella del golpe militare.

È ora il momento di approfondire queste relazioni che si assumono contrassegnate anche da un autentico patto economico, da finanziamenti provenienti dalle centrali del potere occulto, che, dopo le indagini della Procura generale, appare più che manifesto.

La premessa secondo cui “l’esistenza di intensi rapporti di collaborazione tra esponenti della destra eversiva ed i servizi di intelligence non costituisce una novità di questo procedimento; può affermarsi, invece, che rappresenti un dato di fatto non controverso, ammesso anche da autorevolissime fonti istituzionali” costituisce la conferma di un’evidenza irremovibile.

Abbiamo richiamato l’emblematica testimonianza del senatore Taviani sia nel libro di memorie, che come teste nel corso delle indagini relative alla strage di Brescia. Una testimonianza che molti di quanti se ne sono occupati, ritengono incompleta, sicuramente per questa Corte errata nel giudizio su D’Amato. Sta di fatto che questa fonte primaria conferma la penetrazione della destra eversiva nei servizi di sicurezza.

La testimonianza del generale Borsi di Parma è stata considerata non solo attendibile, ma fondamentale.

Il colonnello Giraudo ha chiarito come tale situazione si sia protratta fino al 1980 e anzi le deviazioni di alcuni settori dei servizi segreti italiani si accentuarono negli anni successivi, come è dimostrato dall’accertato depistaggio delle indagini sulla strage del 2 agosto 1980.

Sul ruolo di Carlo Digilio e della rete informativa americana si è detto in varie parti della motivazione. Sull’attendibilità di Digilio si è espressa la Corte d’assise di Milano nella sentenza del 30.6.2001, benché Giraudo abbia affermato nel nostro processo che Digilio ha taciuto molte informazioni.

La Memoria dei pubblici ministeri ricorda il depistaggio cui Digilio si prestò nell’ambito del processo Ciavardini per sostenere in un momento processuale delicatissimo (prima della sentenza della Corte di Cassazione), il falso alibi di Fioravanti e degli altri esecutori materiali.

Si legge nel documento che in quell’occasione “si realizzò una forma di abbraccio processuale coinvolgente, in un comune intento liberatorio, l’autore riconosciuto delle stragi di Piazza Fontana e Brescia (tale è il Digilio) e gli autori sia della strage del 2 agosto 1980 (il trio Fioravanti-Mambro-Ciavardini), sia della strage Brescia (il Maggi)”.

Sui depistaggi ascrivibili a uomini dei servizi per le stragi fasciste degli anni Settanta si è detto in altre parti di questa sentenza. Anche per la strage di Bologna l’intervento depistante fu imponente. In questa occasione tuttavia intervengono direttamente i vertici del SISMI, i generali Santovito e Musumeci, iscritti alla P2. Allo stesso modo massoni legati a Gelli erano gli altri condannati per il depistaggio, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza. Costoro in base a un documento redatto dal Gran Maestro Battelli, successivamente trasmesso dal Gran Maestro Corona alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, erano censiti in qualità di “massoni alla memoria”, espressione indicante l’inclusione in un gruppo riservato di massoni che non doveva essere conosciuto dagli altri.

La dr.ssa Piera Amendola, consulente tecnico delle parti civili, ha chiarito in udienza che i fratelli “massoni alla memoria” sin dall’anno 1977 erano affidati a Licio Gelli nella veste di Maestro Venerabile della loggia massonica P2 in quanto investito sul punto da apposita delega del Gran Maestro, Lino Salvini, vertice del Grande Oriente d’Italia.

Secondo i pubblici ministeri, quindi, all’epoca dei fatti di causa, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza dipendevano anch’essi da Licio Gelli nella gerarchia massonica, al pari del Santovito e del Musumeci. Sul tema probatorio dei legami tra servizi segreti ed esponenti della destra eversiva si è detto in svariati altri luoghi. La requisitoria dei pubblici ministeri sviluppa una puntuale sintesi delle emergenze dibattimentali, anzitutto con riferimento a quattro figure che abbiamo più volte incontrato: Maurizio Tramante, Marcello Soffiati, Aldo Semerari e Massimiliano Fachini, anch’essi coinvolti in fatti di stragismo, come Digilio e Maggi.

Su Tramante e Soffiati appare superfluo soffermarsi ancora. La loro posizione è definita nelle sentenze, più volte citate. Entrambi sono stati ritenuti responsabili della strage di Brescia, come Digilio lo è per quella di piazza Fontana Di Aldo Semerari si ricorda che era legato ad Ordine Nuovo, formazione terroristica per la quale svolse il ruolo di anello di congiunzione con i servizi segreti deviati; era inoltre in contatto con Giorgio Di Nunzio, il primo beneficiario delle rimesse finanziarie indicate nell’appunto Bologna (un bonifico di 240.000 dollari nel settembre del 1980 ed un versamento di 200.000 dollari il 19 febbraio 1981, tramite l’avvocato Peter Duft, fiduciario del Di Nunzio).

A proposito di Fachini, figura che opera fino all’epoca della strage, tanto da esserne imputato e poi assolto, si ricorda come dato accertato che era “braccio destro” di Franco Freda; che aveva collaborato con il servizio segreto militare italiano e in particolare, con l’agente del SID Guido Giannettini e, soprattutto, con Antonio Labruna (ufficiale del SID) e, indirettamente, con il suo superiore Gianadelio Maletti (entrambi piduisti).

L’esistenza di un rapporto di collaborazione di Massimiliano Fachini con l’organismo d’intelligence militare è dimostrata nella motivazione della sentenza emessa l’11.07.1988 dalla Corte di Assise di Bologna sulla strage del 2 agosto 1980 alle pagine 1601-1607. Successivamente fu ammessa dal capitano Labruna il 9/10/1992 innanzi al giudice istruttore del Tribunale di Milano. L’ammissione del Labruna trova riscontro nelle dichiarazioni rese dall’ex colonnello dei carabinieri Antonio Viezzer, risultato iscritto alla loggia P2, e in quelle dello stesso Guido Giannettini.

Sono tutti dati ormai pacifici come pure la relazione Fachini-Labruna fu esaminata e ritenuta provata anche nella sentenza emessa il 18/3/1995 dal giudice istruttore di Milano (proc. contro Nico Azzi + 23) per gli aspetti connessi al delitto di favoreggiamento personale contestato a Guido Giannettini, in relazione al quale fu tuttavia dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione (...).

Su Fachini e sul ruolo di Ordine Nuovo nei rapporti con gli apparati di sicurezza dello Stato abbiamo diffusamente riportato i contributi definitivi di Vincenzo Vinciguerra secondo cui le strutture di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale erano “organiche agli apparati dello Stato”.

Le dichiarazioni di Vinciguerra, incrociate con quelle del generale Borsi, assumono particolare attendibilità quando i nominativi degli esponenti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale collusi con gli apparati dello Stato, tra i quali gli ordinovisti Massimiliano Fachini, Romano Coltellacci, Carlo Maria Maggi, Paolo Signorelli, Delfo Zorzi e Cesare Turco, nonché Gaetano Orlando ed il leader di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie ( rinviamo quanto ai rapporti tra Vinciguerra e Delle Chiaie al racconto di Vinciguerra).

Ricordiamo che Massimiliano Fachini riferì a Vincenzo Vinciguerra la doglianza del capitano Antonio Labruna per il dirottamento aereo compiuto a Ronchi dei Legionari il 6/10/1972, prima ancora che Vinciguerra fosse individuato quale corresponsabile del fatto.

L’intervento di Antonio Labruna, che si rivolse a Massimiliano Fachini con il monito “ora basta fare fesserie!”, indispettì il Vinciguerra che ha spiegato in udienza la ragione del disappunto: all’epoca, era già un fatto “notorio” l’inserimento del Labruna negli ambienti dell’estrema destra e il teste non voleva apparire come una persona posta ai suoi ordini. Nel racconto di Vinciguerra, l’ordinovista Romano Coltellacci fu colui al quale il Labruna chiese di recuperare il mitra sottratto nella notte tra il 7 e l’8.12.1970 negli uffici del Ministero dell’Interno, in occasione del tentativo del “Golpe Borghese”. Al Vinciguerra la Corte ha dedicato innumerevoli pagine, considerandolo un teste fondamentale e attendibile.

Massimiliano Fachini, capo della cellula padovana di Ordine Nuovo, subordinata al Maggi nella sua veste di vertice di tale organizzazione nel Triveneto, fu imputato per concorso in strage per l’attentato del 2.8.1980, condannato in primo grado e definitivamente assolto in appello.

Il pronunciamento assolutorio diede atto del “gravissimo indizio” costituito dalla “accertata conoscenza della imminente strage” da parte del Fachini, a dispetto della “segretezza con cui Valerio Fioravanti aveva circondato questa impresa persino di fronte ai sodali più fedeli”; valutò, tuttavia, a sfavore dell’accusa la circostanza che “i legami tra Fachini e Valerio Fioravanti non erano stati provati in termini di apprezzabile e significativa consistenza”.

Ciò posto, secondo la Procura, i nuovi elementi di prova acquisiti sul coinvolgimento del SISMI deviato nell’attentato del 2 agosto 1980, consentono di affermare che la preventiva conoscenza della strage in capo a Massimiliano Fachini non fosse casuale, dati i suoi legami con i piduisti Antonio Labruna e Gian Adelio Maletti, già condannati per il depistaggio delle indagini sulla strage di Piazza Fontana.

Inoltre, la figura di Massimiliano Fachini rinvia necessariamente alla persona di Gilberto Cavallini, che all’epoca della sentenza assolutoria del Fachini non era stato ancora imputato di concorso in strage con Fioravanti e soci. Come sappiamo, nell’ambiente dell’eversione nera il Cavallini era definito “figlio putativo” di Massimiliano Fachini. La definizione, è noto, è di Gianluigi Napoli che l’ha confermata nel corso del suo esame in aula. Dalla citata sentenza della Corte di Assise di Appello di Milano in data 22.07.2015 (pag. 64) emerge che il Cavallini riferì di avere conosciuto Carlo Digilio tramite il Fachini e di avere acquistato più volte armi dal suddetto.

A tutto questo si aggiunge che il Cavallini, al pari del Fachini, al quale era strettamente legato, risulta avere intrattenuto rapporti con i servizi di intelligence; in particolare con Adalberto Titta, il collaboratore del SISMI di cui ha fatto menzione il colonnello Giraudo a proposito dell’Anello, quella sorta di servizio segreto, costola di quelli ufficiali per il compimento di operazioni “sporche” di cui si è detto.

Riguardo all’anzidetto organismo del SISMI (“Anello”, ovvero “Noto Servizio”) con cui collaborò Adalberto Titta, si assume che costui agì da operatore esterno del servizio segreto militare per le operazioni che non potevano essere ricondotte al servizio ufficiale (in proposito deposizioni Giannuli e Giraudo).

Come emerso dalla deposizione del colonnello Giraudo, nell’ambito della sua attività di intelligence Adalberto Titta si serviva della sottostazione “Sempione” della SIP di Milano (situata in via Mantegna, nelle vicinanze della sua abitazione privata), ove si recava giornalmente e dove poteva avvalersi di linee riservate dell’azienda, non intercettabili e non tracciabili, per effettuare telefonate in prevalenza tra Milano e Roma.

Il dato emerge anche da una nota informativa del giornalista Alberto Grisolia dell’8/5/1979 giudicata attendibile alla luce delle indicazioni di Giraudo. Titta poteva quindi telefonare liberamente senza alcuna possibilità di controllo, disponendo sia di linee riservate sia della possibilità di accedere liberamente alle sottostazioni della SIP e di connettersi ai servizi di intelligenze diretti da Claudiano Pavese, alto funzionario del servizio segreto militare.

Tutto ciò ha rilievo nel nostro contesto in quanto dalla verifica compiuta su un’agenda di Gilberto Cavallini (oggetto di sequestro da parte dei carabinieri di Milano il 12.9.1983) si è rilevato che, tra i pochi recapiti telefonici dallo stesso annotati, figurano i numeri 342111 e 342121.

La peculiarità di tali numeri sta nel fatto che il primo risulta trascritto nell’agenda (a pagina 18) e poi ripetuto in un foglio di appunti sullo stesso rigo in cui compare l’altro, annotati insieme in specifica evidenza come si vede, esaminando l’agenda (allegato 23, cap. 4).

Le indagini compiute dalla Guardia di Finanza di Bologna e la testimonianza di Simone Carelli (ex dipendente SIP ed attualmente dirigente del settore tecnico della Telecom a Milano) hanno consentito di accertare che sia Titta che Cavallini disponevano di utenze riservate SIP, non conosciute all’esterno dell’azienda, analoghe a quelle normali ma destinate ad uso esclusivo di servizio e come tali riservate solo agli addetti al servizio. Esse consentivano di effettuare telefonate in entrate e in uscita dalla sottosezione SIP “Sempione” di via Mantegna a Milano, ubicata nei pressi dell’abitazione del Titta.

Gilberto Cavallini, comparso innanzi alla Corte di Assise di Bologna all’udienza del 21.5.2021 per essere sentito a norma dell’art. 210 c.p.p., si è avvalso della facoltà di non rispondere.

In sostanza Titta e Cavallini erano in condizione di potere comunicare liberamente attraverso le due linee riservate direttamente dalla sottosezione SIP di Milano via Mantegna nella quale Titta si recava giornalmente per telefonare, seconda la nota riservata di Grisolìa.

Cavallini non ha spiegato perché deteneva i numeri delle linee interne, riservate SIP Se questo è vero la circostanza che il Fachini, padre putativo di Cavallini fosse colluso col SISMI consente di trarre l’inferenza che quei suoi contatti Fachini avesse trasferito al “figlio” putativo. E rimasero pur dopo l’asserita rottura tra i due (ne parla Gianluigi Napoli), a causa della sua relazione con la Sbrojavacca che non impedì a Cavallini di partecipare alla strage, secondo quanto esposto nella sentenza di primo grado a suo carico.

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