A Palma di Montechiaro l’indice delle malattie e della mortalità infantile è il più alto d’Europa. Il tifo, il tracoma. le infezioni, la scabbia, le paralisi infantili e la tubercolosi. Dietro lo splendore degli occhi di tanti bambini c’è la fame, l’avidità, ma soprattutto la febbre. Su cento bambini dieci non riescono a sopravvivere fino all’adolescenza. Dei novanta che restano almeno trenta non vanno mai a scuola e restano analfabeti...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Non volevo più tornare a Palma di Montechiaro. C’ero stato cinque volte negli ultimi anni, ed ogni volta tutto era implacabilmente lo stesso: la splendida cattedrale, in cima alla collina, divorata dal vento e dalle erbe selvatiche; l’immensa scalinata che si slanciava per tutta l’erta della collina verso il tempio, ridotta oramai ad un declivio di polvere e sterco; le stradine schifose, scavate nella pietra che sprofondavano verso la valle con un rivolo di liquame al centro e, là in mezzo, migliaia di bambini splendidi e sporchi, centinaia di cani, mosche, polvere, fetore, donne immobili e nere dinnanzi all’uscio ad attendere i seimila mariti emigrati sulla faccia della terra, file di vecchi seduti sulle balaustre di un inesistente giardino pubblico, il tanfo degli escrementi umani ed animali dovunque, la campagna grigia e deserta, d’uno strano colore tetro, come se un alone di polvere vulcanica vi si fosse posata sopra per anni ed anni ed avesse pietrificato tutto.
Palma di Montechiaro, la vergogna dell’Europa, la poesia della disperazione, i bambini più belli che io avessi mai visti ed anche i più miserabili, il paese più fetido e derelitto, il punto estremo della povertà italiana e della impotenza politica siciliana, e contemporaneamente il luogo dove la tragedia del sud assumeva la maschera di una farsa, cioè una legge speciale di undici miliardi per costruire strade, fogne, case popolari, giardino pubblico, scuole, ospedale...
Undici miliardi di dieci anni fa, che erano una somma gigantesca e che tuttavia nessuno era riuscito mai a spendere perché la commissione destinata alla utilizzazione (sindaci, sindacalisti, rappresentanti dei partiti e degli enti) non era riuscita mai a prendere una decisione, ognuno voleva prelazione per un’opera diversa, chi l’acquedotto che irrigasse quelle campagne, chi le fogne che servissero le strade principali, chi l’ospedale che occupasse quei medici, chi le case popolari che ospitassero quelle mille famiglie.
Avevano discusso per anni, si erano scannati, minacciati, insultati; alla fine, ognuno incapace di far prevalere le proprie ragioni, aveva deciso che era quantomeno ignobile che prevalessero le ragioni degli altri, e tutti d’accordo avevano deciso di non riunirsi più. E avevano lasciato nella merda Palma di Montechiaro. Ricordo ancora alcuni brani di quello che scrissi sui bambini di Palma. Molti bambini vanno raschiando le immondizie dalle strade, ne riempiono sacchi e li vendono poi come concime nelle campagne.
A Palma di Montechiaro l’indice delle malattie e della mortalità infantile è il più alto d’Europa. Il tifo, il tracoma. le infezioni, la scabbia, le paralisi infantili e la tubercolosi. Dietro lo splendore degli occhi di tanti bambini c’è la fame, l’avidità, ma soprattutto la febbre. Su cento bambini dieci non riescono a sopravvivere fino all’adolescenza. Dei novanta che restano almeno trenta non vanno mai a scuola e restano analfabeti.
Degli altri cinquanta, almeno la metà abbandonano la scuola a sette, otto anni e vanno nelle campagne a caricare la loro parte di pietre, di fascine, di sacchi, raccolgono sterpi per il fuoco, governano gli animali, raccolgono immondizie per strada. Muoiono molti bambini, ma l’indice di natalità è frenetico, il più alto d’Europa.
Questa piccola, tragica popolazione si propaga sulla faccia della terra con la stessa rapidità con cui, attorno a lei, si propagano gli escrementi, le mosche, la miseria, i cani… Pensavo di avere conosciuto completamente e nella sua più straziante profondità, la tragedia di Palma di Montechiaro, e perciò avevo deciso di non tornarci più. Per scrivere cosa? Che ci sono cento artigiani, cento commercianti, cinquecento borghesi, cioè impiegati comunali, professori, medici, avvocati, carabinieri, maestri elementari, esattori delle tasse.
Che i proprietari della terra sono cinquecento. Che gli altri individui validi al lavoro, braccianti e manovali, sono ottomila e soltanto mille di costoro hanno lavoro stabile, altri mille vivono con gli assegni di disoccupazione, e sono i più vecchi, gli ammalati, i vinti: gli altri seimila sono invece lontanissimi; nelle miniere di ferro e di carbone della Germania, del Belgio, nelle campagne della Francia, nei cantieri della Svizzera o dell’Africa, e che tutto questo infelice paese vive praticamente solo con le rimesse di queste migliaia di emigranti, in media cinquecentomila lire mensili alla famiglia, e questa massa di denaro serve a pagare i bottegai, gli artigiani, il medico, le tasse, i cibi, i vestiti, l’acqua, insomma ad impedire che muoiano coloro che sono rimasti.
Son passato perciò per Palma di Montechiaro alle due del mattino, quando il paese è deserto e non c’è nessuno per strada, e quindi nemmeno la tentazione di fermarsi per fare una domanda, per capire se qualcosa è cambiato nel destino di questa popolazione. Mi sono fermato solo per qualche minuto al centro della vecchia piazza, con la nostalgia del cronista che torna in un luogo che gli procurò una grande emozione umana: ecco, quella scalinata, quella torre, quella parete nuda, con le grate di ferro, è il convento delle recluse vive. Alcuni anni or sono un giovane emigrante tornando per una settimana a casa, tutto vestito di nero, con le scarpine nere, uno splendido foulard azzurro al collo, mi aveva detto: «Chissà quante belle fanciulle vergini lì dentro! Impazziscono d’amore!»
In Germania invece le donne dicono: «Siciliano con chi fai all’amore stanotte?» Ecco la scalinata della cattedrale, quello che era uno splendido monumento barocco, è solo un’erta di pietra, di polvere e di sterco. Là c’era il circolo di cultura, frequentato solo dai vecchi, cominciavano ad arrivare alle sette del pomeriggio, giocavano a scacchi, briscola, scopone e guardavano la televisione.
Aspettavano di morire. Quasi certamente sono morti tutti, poiché la porta è sprangata da un catenaccio, i vetri delle finestre sono sfondati, l’immondizia e la polvere hanno murato gli interstizi dell’ingresso. Scesi dall’auto per fare almeno una foto notturna e riuscii a stare al centro della piazza non più di venti o trenta secondi poiché improvvisamente, come se questo improvviso odore umano nel cuore della notte li avesse evocati, da tutte le strade e i vicoli sentii uno scalpiccio vago, sembravano decine, centinaia di persone che corressero a piedi scalzi, e contemporaneamente cominciai a vedere ombre basse che venivano rasente i muri, dapprima cautamente come se volessero scrutare chi fosse quell’essere umano al centro della piazza, poi sempre più velocemente. Erano cani. Decine e decine di cani.
Cominciò ad abbaiare il primo e via via cominciarono ad abbaiare tutti e continuarono a correre verso di me. Erano cani di ogni misura, di razze mai viste, bassi, o slanciati, o tozzi, o bianchi, o neri, spelacchiati o col pelo irsuto. Avevano tutti due caratteristiche comuni: erano spaventosamente magri e avevano intenzione palese di azzannarmi.
Da quella muta ogni tanto qualcuno faceva mossa di avventarsi, poi si fermava con un brontolio di ferocia, e da un’altra parte schizzavano avanti altri due o tre. Sembrava mi volessero sbranare e nello stesso momento sembrava che avessero terrore. Avevo riguadagnato l’auto con un salto e mi ci ero sprangato dentro. Misi in moto e, alla luce dei fari, vedevo le bestie schizzare via d’un balzo dinnanzi alle ruote, scappare per dieci metri e tornare di nuovo ad inseguirmi. E dalle traverse, che sprofondano dalla collina verso il centro, accorrevano altre bestie, apparivano ritte sulle zampe tremanti al passaggio dell’auto e poi si slanciavano anch’esse, talune presero ad azzannarsi, come se quell’occasionale incontro avesse resuscitato in loro odi mortali.
Sembrava un’allucinazione. Pensai che fossero centinaia o migliaia. Ad un certo momento ebbi un pensiero grottesco e terribile. Che a Palma di Montechiaro i cani fossero molti più che gli uomini. Anzi che avessero divorato tutti gli uomini e fossero definitivamente padroni del paese. E così l’indomani col sole, sono tornato a Palma di Montechiaro.
L’aspetto è quello immobile di sempre, i bambini a migliaia dovunque, le donne vestite di nero, gli orribili tuguri che scivolano verso il fondo valle, la cattedrale che sta cadendo a pezzi. Sulla cima di una collina accanto ci sono i ruderi di un’altra gigantesca chiesa crollata, doveva essere ancora più alta e fantastica, ma sono rimasti i muri della navata, le colonne, i frantumi di un campanile. Il palazzo del Gattopardo è stato adibito per metà a prigione giudiziaria: l’altra metà, con la grande facciata nobiliare volta a mezzogiorno, è piena di crepe, i balconi sono divelti, le finestre sfondate e s’intravvedono i soffitti spaccati.
Per tutta la facciata, con la vernice rossa, c’è una gigantesca scritta «Cacatoio». Sulla balaustra dirimpetto, che sporge come un balcone sulla valle, ci sono cinque vecchi. Sono vecchi come non è possibile esserlo di più. Curvi, rattrappiti, con le giacche che cascano addosso alle minuscole spalle, i volti stritolati dagli anni, gli occhietti che scompaiono in mezzo alla pelle morente.
Stanno allineati e in silenzio. Hanno solo un tremito di vanità dinnanzi alla macchina fotografica, sembrano non capire il senso della mia domanda: come mai, sulla facciata di quel palazzo così illustre, c’è scritta quella orribile parola. E un’offesa, una ribellione sociale, uno scherno per un mondo di nobili e potenti che non c’è più? Mi guardano immobili come se parlassimo due lingue diverse, alla fine uno di loro adagio, adagio dice: «Siccome molti non hanno il cesso nelle case, questo è il posto migliore, c’è la campagna. Grazie a Dio ognuno può fare i propri comodi».
Andiamo al municipio per cercare il sindaco. Uno splendido palazzo seicentesco nel cuore del paese, tutto di pietra grigia e possente, una fioritura di ferro battuto ai balconi, un gigantesco portale d’ingresso oltre il quale si spalanca un fantastico cortile di colonne. Ma tutto è slabbrato, corroso, ovunque sono accatastati banchi, mobili, immondizie, rottami. Il sindaco non c’è, il vice sindaco si chiama Carlo Sortino, è socialista, professore al liceo scientifico, la moglie gestisce una farmacia al centro del paese, è un giovane magro, sorridente con un pulloverino bianco a collo alto, una bella giacca di velluto scuro.
Sommessamente, con quel garbato sorriso triste, risponde a tutte le domande, cerca di spiegarmi Palma di Montechiaro e la sua disperazione: «Quella legge speciale dei trenta miliardi praticamente non è servita a molto. Per anni ed anni il comitato di spesa continuò soltanto ad azzannarsi, sembravano davvero un branco di cani famelici che si riuniva per la spartizione di alcuni ossi, e subito si afferravano alla gola. Lo scopo essenziale non era quello di distribuire a tutti un minimo di sopravvivenza, bensì quello feroce di eliminare quanti più del gruppo perché ai superstiti potesse toccare un osso di più. Per anni ed anni in una specie di balletto tragico e infame al quale faceva da fondale inerte l’assemblea regionale siciliana.
Via via quei trenta miliardi, addirittura già depositati nelle banche, si depauperarono per l’inflazione ed alla fine d’imperio vennero suddivisi fra Licata e Palma di Montechiaro alla quale ne toccarono appena quattro. Servirono solo a poche opere, quasi tutte incomplete. Un rifacimento parziale della rete idrica, un edificio scolastico per le medie, qualche aiuola ed alberello del giardino pubblico, un plesso di case popolari, alcuni canali fognanti per raccogliere le acque nere di una parte del paese».
© Riproduzione riservata