Un anno fa, a un giorno dal pogrom del 7 ottobre perpetrato da Hamas, scrivemmo che Israele aveva il diritto alla reazione, e che qualunque governo volesse avere stanza a Tel Aviv avrebbe dovuto chiudere i conti – da un punto di vista politico e militare – con i tagliagole che avevano perpetrato il massacro dentro i confini di uno stato libero.

Sostenemmo pure che bombardare indiscriminatamente civili palestinesi (già oppressi da una cattività di fatto e dal regime dei terroristi ora guidati da Yahya Sinwar) non sarebbe stato degno di una democrazia evoluta, e che l’entità della risposta avrebbe segnato il confine tra difesa legittima e punizione di massa.

Dopo dodici mesi con oltre 42mila morti, di cui 6mila donne e 11mila bambini, è un fatto che le speranze di una rappresaglia mirata sono andate a farsi benedire, e che Benjamin Netanyahu ha optato per una vendetta biblica, condita da crimini di guerra su cui gli Usa hanno sostanzialmente chiuso gli occhi. Una carneficina che ha portato alla regionalizzazione del conflitto travolgendo l’intero il Medio Oriente, e i cui esiti finali sono ancora ignoti: con ogni probabilità per definirli serviranno altri anni di dolore e distruzione.

I misfatti di Bibi e dell’Idf sono tanto più odiosi perché hanno contribuito a far sbiadire dalla memoria collettiva l’enormità storica del “sabato nero”. Un evento che deve invece rimanere impresso nella coscienza dell’opinione pubblica internazionale per quello che è stato: un pezzo di Shoah in Terra santa, una raccapricciante caccia all’ebreo, un massacro paragonabile ai pogrom che hanno scandito nei secoli la diaspora ebraica e che si riteneva – a torto – inimmaginabile dopo l’Olocausto nazista.

L’orrore della mattanza etnica è invece riesploso nel secolo digitale contro i ragazzini che ballavano nel deserto del Negev, contro civili inermi o soldati già arresi, sulle donne stuprate e sgozzate nel villaggio di Kfar Aza, o gli anziani trucidati a Be’eri. Uccisi non in quanto “nemici” ma solo perché ebrei, in un sabba programmato da anni dai capi di un movimento che teorizza, finanche nel suo statuto, il jihad contro lo stato ebraico.

Davanti all’orrore indicibile è sempre necessaria, affinché non si ripeta, una memoria condivisa, indiscutibile, fondata su valori non trattabili. È dunque imprescindibile riconoscere nel 7 ottobre i segni del “male assoluto” già impressi nei genocidi nei Balcani o in quelli ruandesi del secolo scorso, e i sintomi della “tempesta devastante” che non deve essere né negata né banalizzata, anche da chi ha a cuore il destino della causa palestinese.

Perché sminuire il pogrom di Hamas – giustificato due giorni fa dall’ayatollah Khamenei e dai giovani palestinesi che hanno organizzato la manifestazione romana dell’altro ieri – come legittima rivolta all’occupazione illegale dei territori da parte di Israele è un’aberrazione ideologica, che non solo marca il pregiudizio anti-giudaico, ma allontana dall’unica soluzione possibile, che resta quella dei “due popoli, due stati”.

A un anno da quei fatti, è dunque necessario più che mai uno sforzo emotivo ed etico: la mattanza di ebrei del 7 ottobre deve essere valutata e condannata nella sua “essenza”, in modo che i 1200 trucidati restino monito imperituro degli effetti dell’odio antisemita, testimonianza di un’empietà che non può essere normalizzata da richiami al “contesto” geopolitico, né scolorito dai successivi omicidi di massa dell’esecutivo di Tel Aviv.

Perché solo facendo risaltare l’assoluta immoralità di quell’eccidio possiamo riconoscere l’entità di altri delitti, e provare a batterci affinché non si ripetano più.

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