A un anno dal massacro di Hamas il popolo ebraico si riscopre insicuro e meno prospero. Sono diminuiti gli investimenti esteri, è crollato il turismo e senza palestinesi soffre l’agricoltura
È passato un anno dal 7 ottobre e Manuela Dviri, scrittrice italo-israeliana e attivista per la pace, è tornata da tempo alla sua vita a Tel Aviv. Tutto come prima, ma solo apparentemente. «Sembra una vita normale, ma non lo è. Per niente».
La strage di quel giorno, la guerra a Gaza che continua, più di 100 ostaggi di cui non si sa se sono vivi o morti ancora in mano ad Hamas, centinaia di migliaia di soldati al fronte da un anno rappresentano l’angoscia di sottofondo nella vita di ogni israeliano.
«Questo è un Paese piccolo», è il mantra che sempre si sente in Israele. Lì chiunque conosce qualcuno che ha perso una persona amata il 7 ottobre, o che è parente di un ostaggio o che ha qualcuno al fronte. Ci sono poi le decine di migliaia di sfollati del nord e del sud del Paese. La paura di attentati. L’invasione del Libano della settimana scorsa e la minaccia di un conflitto con l’Iran.
Il senso di insicurezza
Dviri pensa che, anche se si tornerà a una vita più o meno normale, rimarrà per molti la paura più grande: la fine dell’esistenza di Israele. Il 7 ottobre rimane un trauma collettivo anche per questo. Non è solo l’enormità della violenza e crudeltà subita e vista quel giorno, ma è l’aver instillato in chi vive in Israele la paura di non essere più al sicuro, proprio nel luogo al mondo dove gli ebrei sono venuti a vivere per sentirsi protetti e non essere più vittime.
Da quel giorno il senso di vulnerabilità accompagna la vita della maggior parte degli israeliani. A poco valgono i proclami del governo – Hamas sarà sradicato, vinceremo, non ci fermeremo fino a quando tutti gli ostaggi non saranno tornati a casa – o i “successi militari” in Libano delle ultime settimane. «Ci sono due cose che gli israeliani proprio non vogliono: diventare di nuovo profughi e tornare ad essere le vittime» dice Dviri.
Il 7 ottobre ha colpito Israele in un periodo in cui la società del Paese era più divisa che mai, lacerata da mesi di proteste contro la riforma della giustizia che il governo di Benjamin Netanyahu stava spingendo per limitare i poteri della Corte Suprema. A fronte di una cronica instabilità politica – cinque elezioni in meno di quattro anni, l’ultima nel 2022 – il Paese era prospero. Le relazioni con una serie di Paesi arabi si stavano normalizzando. Il “problema” palestinese sembrava essere sotto controllo. Gli israeliani si sentivano sicuri.
La ritrovata preoccupazione per la sicurezza ha riportato la “questione palestinese” nel dibattito pubblico, ma ha fatto diminuire l’appoggio alla soluzione dei due stati. «Le persone tendono a generalizzare, vedendo tutti i palestinesi come il nemico, senza fare grosse distinzioni. Hanno paura che quello che è successo il 7 ottobre possa ripetersi in Cisgiordania» spiega Nimrod Goren, senior fellow al Middle East Institute. Peraltro, quest’ultimo anno ha registrato un aumento impressionante di violenza e di nuove colonie ebraiche in Cisgiordania, tale da rendere sempre più difficile la creazione di uno stato palestinese su quel territorio.
La fiducia nel governo, in caduta libera nei primi mesi dopo l’attacco di Hamas, rimane bassa. Sulla scia dell’offensiva in Libano la popolarità del premier è aumentata, ma se ci fossero elezioni ora l’attuale coalizione le perderebbe.
Molti israeliani sono profondamente delusi dalla gestione degli ostaggi. Le famiglie, sostenute da comitati civici creati all’indomani del 7 ottobre, continuano a protestare e a chiedere le dimissioni del governo.
La fine della prosperità
Noam Kaiser, un investitore di venture capital, ricorda come il Paese un anno fa abbia messo da parte le proprie divisioni interne per aiutare tutti quelli colpiti dall’attacco di Hamas.
«Le divisioni sono poi riemerse e forse sono ancora più forti. Vedremo anche molti casi di stress post traumatico. Io ne vedo già ora» dice Kaiser. Come molti, il quarantottenne e padre di tre figli, sostiene che il 7 ottobre sia stato una “sveglia” per molti israeliani, specialmente per i più giovani. «Ora sanno che la minaccia è reale, che devono stare attenti». E da investitore, Kaiser è molto preoccupato per la situazione economica del Paese. Moody’s ha declassato pochi giorni fa il rating di Israele, dopo altri tagli nei mesi precedenti. La guerra continua a far aumentare la spesa pubblica e alimenta timori che l’economia possa recuperare meno velocemente che in passato. Secondo vari analisti, il 7 ottobre ha sancito la fine di un’era di vent’anni di relativa pace – secondo gli standard israeliani – e di prosperità e il ritorno di uno stato e società più militarizzati, come quelli dei primi 50 anni della vita del Paese.
Stato militarizzato e isolato
Prima, gli israeliani avevano lasciato dietro di sé l’idea di essere in uno stato perpetuo di guerra. I conflitti combattuti in quel periodo sono stati brevi e non hanno causato danni importanti all’economia. Si pensi che la spesa militare era scesa dal 15,6 per cento del Pil nel 1991, al 4,5 nel 2022. Quest’anno dovrebbe aumentare dell’80 per cento.
Il Paese ha richiamato centinaia di migliaia di riservisti per combattere a Gaza. Tutte persone che hanno abbandonato il proprio lavoro. Molti di loro appartengono al settore dell’high tech, che conta per circa il 20 per cento del Pil del Paese, il 16 per cento degli occupati e metà delle esportazioni.
Investimenti esteri continuano a finanziare soprattutto le imprese più grandi del settore, ma poco quelle più piccole di altri ambiti, che starebbero chiudendo o riducendo drasticamente le proprie attività, secondo uno studio della pubblicazione israeliana TheMarker.
Il turismo, anche dei pellegrinaggi religiosi, è sostanzialmente sparito. «Dall’estero viene solo chi veniva sempre, chi ha parenti. Molti hotel da mesi ospitano gli sfollati interni» dice Ruben Moscati, un italo-israeliano originario di Roma, che tra le sue attività organizza tour per gruppi di turisti stranieri.
L’agricoltura è sotto pressione. Manca il personale. Anche perché i lavoratori palestinesi della Cisgiordania non possono attraversare il confine ogni giorno per andare in Israele, creando una mancanza di fondamentale manodopera, in vari settori. «Dopo le altre guerre, c’è stata una forte ripresa. Ma stavolta non sarà così e la colpa è del governo e delle sue politiche che stanno danneggiando la società e l’economia del Paese» dice Kaiser. «Le cose peggioreranno ancora, prima di migliorare. È inevitabile».
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