A Bari, nell’azienda di trasporti ora in amministrazione giudiziaria, c’erano dipendenti che collezionavano record impensabili, c’è chi in pochi mesi arrivava a oltre 500 ore di straordinario, in pratica la loro giornata superava le 24 ore. «La cosa assurda è che l’azienda non è dei baresi, ma della malavita, di qualche politico e di qualche sindacalista», attacca chi ci lavora.

I miracoli nella terra di San Nicola sono innumerevoli se si apre il grande capitolo delle infiltrazioni mafiose nelle società partecipate e l’uso disinvolto delle stesse per premiare amici, parenti e affini da parte di politica e sindacati.

Commissione al lavoro

La commissione di accesso, nominata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è al lavoro avendo quasi certa una proroga di altri tre mesi per verificare l’eventuale condizionamento malavitoso dell’ente, ma la città si prepara al voto più surreale degli ultimi decenni. Surreale perché la questione morale è stata rimossa e quando gli arresti hanno coinvolto esponenti di maggioranza, portatori di voto del centrosinistra, tutto si è trasformato in una zuffa verbale tra partiti.

Il sindaco Antonio Decaro, sotto scorta per le minacce ricevute negli anni, oggi candidato del Pd alle Europee, ha attaccato frontalmente la scelta di nominare una commissione di accesso, mentre i parlamentari locali delle destre tra una foto e un’interrogazione parlamentare hanno politicizzato la questione per raccattare quattro voti. Ma perché non sono state posticipate le elezioni in modo da aspettare l’esito del lavoro della commissione di accesso?

Partiamo dal Viminale che ha nominato la triade che sta passando al setaccio nomine e delibere. Dal ministero dell’Interno fanno sapere che non c’è stata mai nessuna scelta dettata da logiche politiche, ma solo di rispetto delle norme. Filtra anche altro dal Viminale, la scelta di posticipare il voto avrebbe rappresentato un freno al corso democratico, tra l’altro dando fiato alle malelingue che davano questa ipotesi come un favore alle destre sprovviste di candidato a sindaco. Un indirizzo che rende remoto il rischio azzeramento del comune per infiltrazioni mafiose, ma più plausibile un intervento sulle aree amministrative più esposte al condizionamento criminale.

Sfida nel centrosinistra

A Bari è una sfida interna al centrosinistra, il defunto campo largo è diventato ormai un ring, tra Michele Laforgia, sostenuto dal M5s, e Vito Leccese, candidato espressione del Pd e braccio destro di Decaro al comune, prima direttore generale poi capo di gabinetto. «Lo scioglimento per mafia di un comune è un atto amministrativo, non è una sentenza penale, anche non aver vigilato, aver nominato dirigenti incapaci nelle municipalizzate, non aver esercitato il controllo previsto dalla legge nelle aziende partecipate è un elemento che racconta la permeabilità», spiega a Domani un funzionario prefettizio esperto della disciplina di prevenzione antimafia.

L’esercizio del controllo del socio unico è l’attività che deve svolgere il comune all’interno delle partecipate, avrebbe nel caso dell’azienda di trasporti contribuito all’emersione dei casi più assurdi, raccontati dai dipendenti, come i campioni di straordinari, ma in generale la gestione allegra della municipalizzata. L’attenzione della commissione di accesso è di certo orientata a delibere, parentele e provvedimenti assunti, ma anche alla capacità dell’ente di monitoraggio delle partecipate in merito ad assunzioni, fornitori e gare.

Il fronte dell’indagine amministrativa viaggia in modo parallelo a quello della procura che, a leggere le informative depositate, non ha terminato il suo lavoro. Nel settore ad esempio della vigilanza, ma anche nelle società di somministrazione di manodopera si verificano i casi di ingressi di dipendenti ‘segnalati’ che poi, dopo pochi mesi, entravano direttamente nelle municipalizzate. E lì si trova di tutto, parenti, amici e familiari di boss, ma anche lavoratori cari a questo politico o a quel sindacalista come ricostruito dalle cronache di queste settimane.

La stessa vigilanza, la Gsa, dove lavoravano soggetti cari al crimine organizzato, aveva l’affidamento non solo dall’azienda dei trasporti, da un ventennio, ma anche in altre municipalizzate. In una intercettazione il responsabile della sede barese, Maurizio Santoro, si confrontava con uno degli uomini di spicco del clan Parisi, Tommaso Lovreglio. Nelle conversazioni quest’ultimo ricordava la serenità aziendale garantita dal sodalizio criminale evitando vertenze sindacali in cambio di controllo e assunzioni. Gli amici degli amici, insomma, monitoravano ingressi e uscite delle partecipate. Lo stesso circolo del dopo lavoro in azienda era condizionato dai voleri della malavita. Al telefono lo dicevano chiaramente: «Il presidente non è il padrone». Un quadro diffuso di contaminazione, strutturato nel tempo, al vaglio della procura, ma anche della commissione di accesso.

Domani aveva scoperto e rivelato che anche nella società che supporta la riscossione dei tributi del comune uno dei soci, Giovanni Riefoli, era finito ai domiciliari mentre l’altro, Roberto Recordare, era stato nel 2020 indagato dall’antimafia di Reggio Calabria perché sospettato di essere addirittura «un soggetto riservato della 'ndrangheta» incaricato di riciclare decine di miliardi di euro per i clan. Recordare ha sempre ribadito di non aver ricevuto neanche un avviso di garanzia e di essere estraneo a ogni contestazione, visto che le iniziali indagini non hanno avuto alcun seguito giudiziario.

Poco distante da Bari, nei prossimi giorni, si celebra il G7 con tutti i capi di stato, una vetrina importante per il nostro paese, e lo scioglimento, ma anche solo il rinvio delle consultazioni avrebbe comunque offerto un’immagine a tinte fosche. Eppure, anche a leggere le carte delle inchieste sulla città capoluogo, le tinte non sembrano rosee.

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