Un anno fa cento scienziati lanciavano un appello ai media italiani per prendere sul serio la gravità del cambiamento climatico. Le istruzioni erano tre: parlate delle cause, parlate delle soluzioni, non parlate di maltempo. Non si può dire che siano stati ascoltati: lo dimostra l’idea avanzata dalla ministra del Turismo. Intanto restiamo uno dei pochi paesi europei senza una legge sul clima
Un anno fa cento tra gli scienziati più importanti d'Italia (tra loro il Nobel Giorgio Parisi) lanciavano un appello ai media e alla politica: per favore, prendete sul serio la gravità del cambiamento climatico e parlatene correttamente. Le istruzioni erano tre: parlate delle cause, parlate delle soluzioni, non parlate di maltempo. Non si può dire che siano stati ascoltati.
La pioggia torrenziale e violenta che ha isolato Cogne, travolto Cervinia col fango e messo in ansia Valle d'Aosta e Piemonte fa parte della stessa perturbazione che ha fatto sette morti tra Francia e Svizzera. Con una definizione accurata, il Wwf ha descritto l’Italia come un paese in uno stato di «calamità climatica permanente», fotografia nella quale va inclusa anche la siccità in Sicilia.
La ministra del Turismo Daniela Santanchè ha detto che porteranno i turisti a Cogne in elicottero. Il suo collega Nello Musumeci, delega alla Protezione civile, ha invocato un ricorso massiccio alle polizze assicurative, perché lo stato non ha più risorse per rincorrere gli eventi estremi, e ha usato un verbo inquietante: «Dobbiamo abituarci a convivere con questa situazione». Sono due esempi interessanti di cosa è diventato il clima nel discorso pubblico italiano.
normalizzare la crisi climatica
Ci stiamo davvero, come chiede Musumeci, abituando a vivere in una calamità permanente, stiamo assistendo alla normalizzazione dell'emergenza climatica. È l’opposto di quello che chiedevano gli scienziati un anno fa: stiamo trattando un'emergenza nazionale e globale come un problema esclusivamente locale da tamponare, in questo caso della Valle d’Aosta, del Piemonte o della Sicilia.
Allo stesso tempo, non stiamo parlando delle cause e la parola usata di più è di nuovo «maltempo», come se fossimo nel 2004 e non nel 2024. L'attribuzione dei singoli fenomeni estremi al riscaldamento globale è una scienza complessa, che richiede fondi e tempo, c’è un solo istituto al mondo che ha risorse per farlo in tempo reale (World Weather Attribution), e non può effettuare queste indagini con ogni singolo evento nel mondo, anche perché negli ultimi mesi ci sono state diverse catastrofi da centinaia di vittime in Asia, Sudamerica e Africa.
Non avremo le loro analisi su quello che è successo a Cogne e Cervinia e su come si inseriscono statisticamente nell’aumento dei fenomeni che estremi, ma ciò che dovrebbe guidarci oggi è un principio di precauzione: stiamo osservando fenomeni che corrispondono in pieno alle previsioni dei modelli.
«Siamo sempre cauti ad attribuire il singolo evento al cambiamento climatico o alla variabilità naturale del clima, però è chiaro che c'è un trend nel nostro paese», spiega a Domani Antonello Pasini, fisico climatologo del Cnr. «Su questi eventi c’è l’impronta digitale del cambiamento climatico, che ha modificato la circolazione dell'aria nel Mediterraneo. L’anticiclone africano si spinge fino al nord Italia, l'aria diventa più calda e umida. Quando arrivano influssi freddi da nord, si trasformano in quello che vediamo, un paese che per la sua posizione geografica diventa il punchball del clima, preso a pugni una volta da sud e una volta da nord, con ondate di calore e precipitazioni sempre più estreme, due facce della stessa medaglia».
Dovremmo trattare questi episodi come manifestazioni del cambiamento del clima, invece stiamo facendo l’esatto opposto. È un andamento coerente con il mood politico globale di rigetto nei confronti dell’ecologia, ma anche con quello che succede nel nostro piccolo in Italia: c’è un filo che lega la criminalizzazione dell’attivismo al ritorno della narrazione della crisi climatica come maltempo locale. L’Italia ha scelto di non occuparsene, in assenza di strumenti, idee e consapevolezza, e a volte basta un piccolo slittamento semantico per farlo. Ci abitueremo, nel frattempo mandiamo i turisti a passeggiare in elicottero.
La legge sul clima
Non stiamo affrontando il clima come un problema reale, che richiede soluzioni reali. Siamo uno dei pochi paesi europei senza una legge sul clima, che è invece operativa in Francia, Germania, Spagna, Olanda, e permette di avere a sistema in un modo verificabile e trasparente il progresso climatico di un paese.
Il nostro piano di adattamento ai cambiamenti climatici, rimasto nel cassetto per sette anni, è approvato da questo governo dopo le ondate emotive delle alluvioni in centro Italia, ma è un documento teorico, senza risorse, fondi o voci di spesa. Infine il Piano nazionale di energia e clima, mandato lunedì alla Commissione europea, prevede per la decarbonizzazione italiana anche 8GW di nucleare di nuova generazione, una fonte di energia che ancora non esiste, con addirittura una piccola quota di fusione nucleare, cioè al momento fantascienza.
Mettere il nucleare nel piano per decarbonizzare l’Italia è un po' come programmare un itinerario di viaggio tra la Calabria e la Sicilia per la prossima estate prevedendo già l’esistenza del ponte sullo Stretto.
È questo il livello di serietà con cui si affronta la crisi climatica in Italia, ed è figlio di resistenze industriali, politiche, culturali, e anche del non riuscire a convincerci che si tratta di un’emergenza. La superficialità della politica è il sottoprodotto dell’aver normalizzato ciò che va trattato come estremo.
Non avere una legge sul clima, o avere piani di mitigazione e adattamento scritti in quel modo senza che diventino scandali nazionali, è l'effetto di un paese che si sta convincendo piano piano di avere un problema di maltempo, per il quale non può fare nulla se non maledire il cielo, quando invece ha un problema di cambiamento climatico, per il quale si può ancora fare molto, a patto di trasformarlo in una priorità.
Pasini era il primo firmatario di quell’appello un anno fa: «Lì per lì aveva avuto una grande copertura stampa, vedevo buona volontà, anche sulla Rai, poi ci sono stati indubbiamente passi indietro nella qualità del discorso pubblico. Non si vuole più parlare delle cause. A volte faccio interviste in cui trovo proprio quella parte tagliata, come se ci stessimo abituando a percepire tutto questo come un fenomeno inevitabile, una natura matrigna alla quale dobbiamo soltanto abituarci».
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