- La siccità di questi giorni è la previsione di tutte le prospettive di Italia come hotspot dei cambiamenti climatici e ha radici lontane: quest’anno sono crollate le precipitazioni invernali, che servono a ricaricare i bacini e le falde. La situazione è drammatica soprattutto per il Po, ai livelli più bassi da settanta anni e minacciato dalla risalita dell’acqua di mare.
- Mentre si parla già di razionamenti in centinaia di comuni del nord, la situazione più critica è quella dell’agricoltura, che dipende pesantemente dall’irrigazione: rischiamo di perdere il 50 per cento dei raccolti nella Pianura Padana, l’area agricola più importante del paese.
- In questo momento c’è un problema di governance per la gestione di una risorsa così scarsa: le associazioni chiedono una cabina di regia con la Protezione civile e un mandato istituzionale forte. E in futuro servirà ripensare l’infrastruttura, con una rete di piccoli invasi in grado di trattenere l’acqua.
L’Italia non si è risvegliata in siccità a una settimana dall’estate, ma ci è lentamente scivolata dai primi mesi dell’anno, con il crollo invernale delle precipitazioni. Per spiegare la situazione, il dirigente di ricerca dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (Irpi), Luca Brocca, usa spesso la metafora del conto in banca: abbiamo accumulato un debito idrico, sperando che arrivasse un grande e improvviso bonifico a compensare.
Quel «bonifico» sarebbero state le piogge di maggio: ora deve piovere, deve piovere tanto, o saremo nei guai, dicevano gli esperti a fine inverno. «Sono arrivate, ma non sono riuscite a compensare l’assenza di pioggia e neve nei mesi precedenti».
L’Irpi segue l’andamento dell’acqua in Italia attraverso i dati satellitari: è da lì che arriva l’immagine per completare quella del fondo asciutto e sabbioso del Po. «La neve sulle montagne si è già sciolta, con un mese e mezzo di anticipo rispetto alla norma», spiega Brocca. Il grande serbatoio che porta l’acqua a valle è a secco.
Senz’acqua
Per anni abbiamo mandato a memoria la formula «Italia hotspot dei cambiamenti climatici», territorio dove la crisi avrebbe colpito più duro, ora la siccità ci sta insegnando cosa significhi concretamente. Stiamo passando da paese fondato sulla sovrabbondanza di acqua, con relativa cultura degli sprechi, alla sua scarsità, con i conflitti che ne verranno.
Con il Po che vive la crisi peggiore negli ultimi settant’anni, la produzione del bacino padano – area agricola più importante del nostro paese – potrebbe crollare del 50 per cento, avverte Cia – Confederazione italiana agricoltori. Dal punto di vista energetico, non manca solo l’acqua per le centrali idroelettriche ma anche quella per raffreddare le altre.
Oltre cento comuni tra Piemonte e Lombardia potrebbero arrivare a razionare l’acqua di notte. «Per come è la situazione dovremo presto pensare a limitare gli usi superflui, dalle piscine al lavaggio delle auto», spiega Brocca, evocando le misure prese in un altro «hotspot della crisi», la California, dove in diverse contee non si innaffiano più le aiuole e gli ispettori girano per i sobborghi a sanzionare ogni spreco.
Senza precipitazioni
La prospettiva climatica è che le siccità diventano più frequenti, intense e lunghe. «Siamo abituati a estati calde e secche», spiega Monia Santini, ricercatrice del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici. «Il problema è che iniziano a mancare le precipitazioni nei mesi precedenti, quelli della ricarica dei bacini».
L’anno idrologico in Italia comincia con l’autunno, da allora sono venuti a mancare 160 mm di pioggia mentre la neve è meno di un terzo, il risultato è un crollo delle portate di fiumi e laghi.
Abbiamo continuato a prelevare, per usare la metafora del conto in banca suggerita da Irpi, anche se non venivano aggiunte nuove risorse. E davanti a noi abbiamo un’estate più calda e secca rispetto alle medie, come dicono le previsioni stagionali del Servizio Copernicus: si prevede che pioverà tra luglio e agosto tra i 10 e i 50 millimetri in meno (rispetto a livelli già bassi tipici dell’estate). Tra le dinamiche preoccupanti c’è la risalita dell’acqua salata dal mare man mano che si ritira quella dolce: nel delta del Po è penetrata di 15 chilometri, con effetti negativi in superficie e nelle falde.
Agricoltura in pericolo
Il settore più esposto è l’agricoltura. «Il frumento è già in fase di raccolta, e lo stress idrico degli ultimi mesi ha tagliato le rese, cioè i quintali per ettaro, del 15 per cento», spiega Lorenzo Bazzana, agronomo e responsabile economico di Coldiretti. Poi toccherà a mais, soia, riso e ai prodotti ortofrutticoli. Lì i conti si faranno in autunno.
«Andiamo verso i due mesi più caldi, serve acqua per irrigare ma oggi quell’acqua non c’è, gli agricoltori rischiano di dover scegliere tra salvare una coltura o un’altra». Sono gli effetti sistemici della crisi climatica: le ondate di calore (siamo già alla seconda) aumentano il bisogno di acqua, ma la siccità ne diminuisce la disponibilità. «Senza irrigazione di soccorso avremo frutta e verdura più piccola o deteriorata, in alcuni casi lessata direttamente sui campi. In quelli di mais la lamina fogliare è arrotolata, si stanno seccando, sono come esseri umani nel deserto senza borraccia».
Per soia e mais le rese potrebbero crollare del 50 per cento, meloni e cocomeri tra il 30 e il 40 per cento. Queste ultime, come i pomodori tardivi che rischiano proprio di non arrivare ai mercati, sono coltivate a goccia, i campi non si allagano più, quindi non possono andare avanti senz’acqua nemmeno pochi giorni.
Un risorsa da gestire
La siccità di questi giorni pone due problemi: uno è di emergenza, declinabile al presente. L’altro è di struttura, e riguarda il futuro. Nei prossimi mesi l’Italia dovrà amministrare con saggezza una risorsa vitale e scarsa.
«La situazione porterà conflitti tra gli usi e tra i territori, bisogna ripensare il governo dell’acqua, serve un’autorità forte a gestirli, con un mandato istituzionale», spiega Francesco Vincenzi, presidente Anbi (Associazione bonifiche irrigazioni miglioramenti fondiari).
La richiesta di Anbi è una cabina di regia, coordinata dalla Protezione civile, che gestisca i prelievi e i rilasci. «Oggi nei tavoli tra agricoltori, idroelettrico e territori c’è tensione, perché le autorità di bacino devono decidere a chi dare acqua e a chi toglierla». L’altro aspetto delicato è il conflitto tra chi sta a monte, e di acqua ne ha poca, e chi sta a valle, e non ne ha proprio più. «È come trovarsi alla fine di un tubo, ci sono territori dove non è nemmeno più questione di giorni, ma di ore, nell’ultima settimana c’è stato un ulteriore calo drammatico delle portate».
I grandi laghi alpini dovrebbero aumentare i rilasci, ma sono anche loro in crisi, soprattutto Iseo, Maggiore e Como, solo un coordinamento istituzionale può gestire il flusso, evitando che chi si trova alla fine del tubo venga dimenticato. «È un’emergenza, va trattata come tale».
La nuova normalità
E poi c’è il futuro oltre l’emergenza, l’idea che questa non è un’eccezione, ma la nuova normalità. Della soluzione si parla da anni, il Piano laghetti è una rete diffusa di piccole infrastrutture, fatte di migliaia di invasi artificiali collegati tra loro (alcuni esistenti, la maggior parte da creare) per trattenere l’acqua piovana, che in Italia non è sparita, ma è diventata più irregolare.
Spiega Vincenzi, «I dati ci dicono che piove tra 600 e 800 millimetri l’anno, non sarebbero numeri drammatici, il problema è che arriva tutta insieme, fa danni e i terreni non la trattengono, quindi finisce in mare».
Il piano stimato da Anbi è di 10 miliardi di euro da spendere in dieci anni per attrezzarci ai prossimi cento, altra scala rispetto agli 880 milioni previsti dal PNRR. «E serve meno burocrazia, meno vincoli autorizzativi, o queste opere non le faremo mai», conclude Vincenzi.
© Riproduzione riservata