Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, una newsletter che sostiene la conquista di Sanremo da parte della Rappresentante di lista. «La fine del mondo, che dolce disdetta». Questa settimana non lo si poteva dire meglio. Se avete altri pareri, fatemi sapere! Intanto, iniziamo. 

Conti a secco, estate a febbraio

Partiamo dalla situazione dell’acqua in Italia. Una brutta situazione. C’è questa formula che leggiamo spesso, Italia come «hotspot della crisi climatica». Ecco, stiamo osservando cosa significa concretamente vivere dentro hotspot climatico.

A Milano – da dove vi scrivo – c’è quest’aria di primavera, che mette allo stesso tempo buonumore e angoscia, ma soprattutto i fiumi e le riserve idriche dell’Italia nord occidentale sono a secco, come se fosse estate a febbraio.

Ho scritto a Stefano Fenoglio, che studia la fauna nei corsi d’acqua ad AlpStream, il centro di ricerca sui fiumi alpini che si trova in alta Valle Po, a Ostana (Cuneo), a pochi chilometri dalle sorgenti del grande fiume. «La situazione qui è drammatica», mi ha risposto. «Non solo alle sorgenti, ma in genere è un disastro. Non ci sono precipitazioni significative da inizio dicembre, le temperature mostrano un’anomalia positiva impressionante (domenica scorsa c’erano 20 °C in alta Val Pellice)». 

Il Po al Ponte della Becca, all’inizio della Pianura padana, è ai livelli che ci si aspetta d’estate, ed è in generale ai minimi storici da dodici anni. La portata dell’asta principale è ben sotto le medie, quelle degli affluenti sono ancora più in difficoltà e in alcuni casi quasi azzerate: Trebbia, Taro, Secchia, Panaro. Questa l’immagine dal satellite Copernicus del Po dalle parti di Cremona. 

Oggi tocca al nord ovest, ma a settembre in Italia centrale c’erano le condizioni più secche mai osservate. E la siccità si sta estendendo verso sud. Questa la mappa delle condizioni di siccità a inizio febbraio dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr.

«Tutto dipende da quello che succede con le precipitazioni da qui a maggio», spiega Luca Brocca, direttore dell’Istituto. Insomma, se la situazione è questa, è legittimo aver paura per l’estate. «È come guardare il proprio conto in banca. Se è pieno, puoi anche essere meno preoccupato per il futuro, diciamo che hai meno paura che salti uno stipendio nei prossimi mesi. Oggi il nostro conto in banca è vuoto, se continuerà a piovere così poco l’agricoltura potrebbe risentirne in maniera significativa. Nel 2019 eravamo in una condizione simile, poi a maggio ha piovuto tutti i giorni e l’agricoltura si è salvata». Ci sarà da guardare in su.

La situazione più critica in questo momento è in Lombardia e Piemonte. Non manca solo la pioggia, manca anche il 60 per cento della neve rispetto allo scorso anno, e gli invasi naturali e artificiali sono quasi vuoti, i grandi laghi del nord (Como, Garda, Maggiore) sono al 25 per cento del riempimento normale. L’umidità nel primo metro di suolo, la fonte più immediata per l’irrigazione, è minima.

Quello che dicono tutti gli esperti è che questa non va più trattata come un’emergenza, è un cambiamento strutturale del nostro rapporto con l’acqua. «Stiamo assistendo a quello che si aspettavano i modelli climatici: lunghi periodi senz’acqua alternati a lunghi periodi piovosi. L’anno scorso a gennaio mi intervistarono perché piovve per venticinque giorni di fila, ora ha smesso di piovere da cinquanta giorni». Un mondo dove l’acqua diventa così imprevedibile è un mondo in cui è molto più difficile vivere.

Il paradosso è che il nord Italia è meno attrezzato ad affrontare un’«emergenza strutturale» di questo tipo. Lo spiega Francesco Vincenzi, presidente dell’Anbi, Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni.

«Trent’anni fa proprio non si pensava che potesse mancare la risorsa idrica al nord, la siccità era un problema del meridione, di Sardegna, Puglia, Basilicata, che hanno iniziato a compensare con l’infrastruttura, una rete di invasi interconnessi che riduce l’impatto della scarsità. Ora dobbiamo preparare anche il nord, serve una nuova rete di invasi piccoli e medi per diventare più resilienti a periodi come questo».

È di questo che parliamo quando parliamo di adattamento climatico. «Dobbiamo considerare gli invasi che trattengono l’acqua come un’infrastruttura strategica sulla quale investire, come i porti e gli aeroporti». L’acqua è il più multifunzionale dei beni comuni, serve ai cittadini per bere e vivere, serve alle centrali idroelettriche, serve agli ecosistemi per continuare a esistere e serve all’agricoltura, che in questo momento è il settore più sotto pressione.

«La capacità di produrre cibo rischia di essere compromessa. Siamo un paese del Mediterraneo, da noi il cibo è irriguo, senza acqua non c’è agricoltura, anche perché il caldo anomalo anticipa le colture e quindi il fabbisogno idrico». 

Giochi invernali senza neve

Sono iniziati i Giochi olimpici invernali di Pechino 2022 e dobbiamo proprio parlarne. Inevitabilmente, sono stati presentati come green e carbon neutral, ma ormai è una difesa d’ufficio che si sente chiamata a portare avanti ogni organizzazione di un grande evento. (Avrete letto del tappeto verde di Sanremo. Ecco). 

A maggior ragione per un’olimpiade, e a maggior ragione per un’olimpiade invernale, un tipo di manifestazione che rischia di essere ormai in via di estinzione, almeno per come siamo abituati a conoscerle.

È dagli anni Novanta che il Cio ha messo l’accento sulla sostenibilità, ma non è che sia andata benissimo finora. C’è una ricerca, pubblicata su Nature, che ha misurato la sostenibilità olimpica dal 1992 al 2020 e ha scoperto che i Giochi (estivi o invernali) non hanno fatto altro che diventare meno «green» man mano che ci si sforzava di renderli più green. 

I più sostenibili sono stati quelli di Salt Lake City 2002, i peggiori Sochi 2014 e Rio 2016. Se volessimo olimpiadi sostenibili dovremmo fare tre cose (che non facciamo): ridurne le dimensioni, farli ruotare sempre fra le stesse località, affidare la misurazione del loro impatto a organismi indipendenti. 

Ma torniamo alla Cina. Il presidente Xi Jinping ha detto che i Giochi cinesi saranno «inclusivi, aperti e puliti». Pechino 2006 era il gran ballo della Cina che si presentava sulla scena internazionale. Pechino 2022 è la Cina che prova a mostrare l’efficacia della sua sfida al Covid e le sue credenziali ecologiste, con iniziative come i mille autobus a idrogeno che sposteranno gli atleti o l’immancabile messa a dimora di nuovi alberi per compensare le emissioni.

Ma il grande problema ecologico di questa edizione è la neve. Nel 2014 a Sochi l’80 per cento della neve era stata artificiale. Quattro anni dopo a Pyeongchang la quota era salita al 90 per cento.

Sulle montagne di Zhangjiakou (sede principale dell’evento) praticamente tutta la neve sulla quale si compete è artificiale: qui l’inverno si è accorciato di dieci giorni dagli anni Settanta, eppure l’area è stata oggetto di una massiccia spinta a costruire le «Alpi cinesi» e a creare un’industria degli sport invernali. E questo in una regione che vive da anni un pesante stress idrico, dove ci vorranno 200 anni per tornare ai livelli del 1998 e che ha visto il 10 per cento (secondo le fonti ufficiali) di riserve già così sotto pressione, utilizzato per produrre la neve per le gare. Parliamo di 2 milioni di metri cubi di acqua: 800 piscine olimpioniche piene. 

Quello del presente e del futuro dei Giochi invernali non è tanto un problema cinese quanto del Comitato olimpico, di tutto il movimento e dell’industria degli sport invernali come la conosciamo. In un mondo che cambia, i margini per organizzare eventi di queste dimensioni sulle neve diventano sempre più limitati.

Una ricerca dell’Università di Waterloo (qui raccontata con elaborazioni grafiche molto utili) è tornata con numeri nuovi su un tema del quale si discute da tempo: quanto spazio rimane per gli sport invernali?

Secondo la ricerca, soltanto una delle 21 località olimpiche invernali del passato sarebbe in grado di ospitarli di nuovo in futuro per condizioni climatiche e ambientali. Nei prossimi decenni non potrebbero Vancouver, Torino o Pyeongchang, l’unica sede in grado di fare il bis sarebbe Albertville, in Francia.

La traiettoria delle temperature è stata inesorabile. Quella media dei Giochi olimpici invernali organizzati tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta è stata di 0.5°C, nel trentennio successivo è stata di 3.1°C, nelle sedi olimpiche di questo secolo siamo arrivati a 6.3°C, ben oltre la soglia oltre la quale una località diventa affidabile per organizzare un evento di questo tipo. 

Frontiere del negazionismo (uno non vale uno)

Joe Rogan conduce il podcast più famoso e ascoltato del mondo, infatti Spotify gli ha offerto una cifra fuori scala per ospitarlo in esclusiva sulla piattaforma. Se ne è parlato di recente per via della scelta di Neil Young, Joni Mitchell, Graham Nash, India Arie di togliersi dal servizio streaming per protesta contro i suoi contenuti ammiccanti ai no-vax.

Prevedibilmente, Rogan ha un problema anche con la scienza del clima, visto che ha ospitato sulla sua piattaforma Jordan Peterson, che di mestiere fa lo psicologo clinico, ed è un abile artigiano delle opinioni controverse su clima ed energia.

Quando è stato ospitato nel Joe Rogan Experience, Peterson ha, tra le altre cose, detto pure che nel mondo il solare fa più morti del nucleare... a causa delle persone che cadono dai tetti. (Non è vero, qualcuno si è pure preso la briga di fare debunking). 

L’opinione più controversa però non è quella sui pannelli fotovoltaici killer, ma questa: «Il clima non esiste. I modelli sono basati su un numero limitato di variabili. Vuol dire che qualcuno ha deciso quali, tra tutte le variabili, inserire in questo set. Ma come si decide quali variabili includere nell’equazione, se l’equazione riguarda tutto?». Ecco, parliamone.

La disinformazione climatica, come l’erbaccia, prende varie forme, cambia, si evolve, si adatta al contesto, ma questo schema di pensiero è vecchio di un decennio, e ciclicamente torna, e quindi parliamone. I modelli climatici non sono come le previsioni del tempo, affidabili fino al massimo di una settimana. E soprattutto i modelli climatici su base decennale si sono già rivelati piuttosto accurati: oggi viviamo nel range di temperature che i modelli degli anni Settanta e Ottanta (molto meno sofisticati di quelli che abbiamo oggi) avevano previsto. Questa ricerca per approfondire. 

Nel grafico di seguito si vede la linea nera (le temperature reali) e quella grigia, le temperature previste, e l’area grigia, il range previsto dai modelli. 

Jack Marley su The Conversation usa una metafora interessante: non sappiamo quando moriremo, a quale età o come. Però possiamo conoscere quale sia l’aspettativa di vita in un determinato contesto e sappiamo che, in ogni caso, a un certo punto moriremo. Se cambiamo le condizioni del contesto (stile di vita, benessere, sanità), cambierà anche l’aspettativa di vita. Questo è un modello climatico: sappiamo che più immettiamo gas climalteranti nell’atmosfera, più aumenterà la temperatura del pianeta, con un effetto prevedibile e misurabile anticipo.

Ci sono tante cose che ancora non conosciamo, la scienza dell’attribuzione degli eventi al riscaldamento globale è ancora in divenire. Ma sappiamo che c’è una correlazione tra economia e gas serra, tra gas serra e temperature, tra temperature e instabilità climatica. E che quello che possiamo controllare, cambiare e mitigare sono i gas serra. 

Per parlare di Covid, Rogan ha invitato anche Sanjay Gupta, non scettico come gli altri ospiti sul tema, e pro-vax. Per parlare di clima ha invitato David Wallace-Wells, autore di La terra inabitabile. Una storia del futuro. Il punto è che questo equilibrio, trattare scienza e pensiero antiscientifico come due fazioni che devono contendersi un pubblico ad armi pari, è già negazionismo. Non è una gara di dialettica, sono fatti. 

In ogni caso, Peterson dice di aver preso le sue osservazioni dal libro Hot Talk, Cold Science: Global Warming’s Unfinished Debate di S. Fred Singer, scomparso nel 2020, fondatore di Science and Environment Policy Project, centro studi negazionista, sostenuto da ExxonMobil e dalla famiglia Koch. 

Ogni episodio di The Joe Rogan Experience ha 11 milioni di ascoltatori. 

Amore al tempo della crisi climatica

Prima di salutarci, vi parlo di un libro. Si intitola Sex and the Climate. Quello che nessuno vi ha spiegato sui cambiamenti climatici. Lo ha pubblicato People e lo ha scritto Stefano Caserini, docente del Politecnico di Milano, uno dei massimi esperti di mitigazione climatica in Italia.

Il suo libro però non parla di rimozione della CO2 dall’atmosfera o di riduzione dei gas serra, ma di noi, di amore, di sesso, di desiderio e di paura. In che modo si ama, ci si accoglie, ci si cerca e ci si perde durante un’emergenza climatica? Sono aspetti che la scienza ha trattato, sfiorato, provando a misurare l’effetto sulle nascite, il benessere, la felicità, l’ansia degli eventi estremi o del riscaldamento globale, ma sono episodi, frammenti, questo lato del futuro è ancora in un angolo cieco, anche più del resto.

Caserini prova a portare l’amore fuori di lì, ragiona incrociando gli studi clinici con la letteratura, la musica, la poesia, alla ricerca di risposte che non ha, perché non le abbiamo.
Però è la domanda a essere interessante. In questa crisi di sistema, come reagiscono corpi, emozioni e pulsioni? 

I «divorzi» tra gli albatros, una delle specie più radicalmente monogame che esistano, sono triplicati, a causa della scarsità di cibo e dei viaggi più lunghi per trovarne in un mondo più caldo. Quello che sappiamo sull’amore (poco, obiettivamente, sicuramente meno di quanto ne sapessero gli albatros), lo sappiamo sull’amore in un clima stabile. I nostri cuori sono un macello, ma almeno il clima, fino a una o due generazioni fa, era lo stesso che aveva permesso lo sviluppo dell’agricoltura e della nostra civiltà. 

E ora? Che ne sarà dei nostri desideri? Caserini, in un capitolo che ho trovato bello, racconta il senso di Dolcenera, la canzone di Fabrizio De André sui due amanti che si cercano e non si trovano durante l’alluvione di Genova del 1970, una tempesta con un tempo di ritorno di cento anni. Il tumulto del cielo ha sbagliato momento, cantava De André. Ma come saremo e cosa vorremo quando quel tempo di ritorno sarà di ogni autunno? Come influiranno le ansie e lo stress da crisi climatica? 

È una cosa alla quale avete mai pensato? 

Come vedete l’amore in un mondo di 1.5° o 2° o più gradi più caldo?

Vediamoci!

Segnalazione, per chi è interessato e pensa di essere nei paraggi: ad aprile WeWorld organizza a Bologna un percorso gratuito di formazione di policy e attivismo su giustizia climatica e sociale, per 35 partecipanti tra i 16 e i 35 anni. Si parlerà di lavoro, imprese, acqua e governance delle risorse (appunto), migrazioni e percezioni delle emergenze. Tra le persone che interverranno ci sarò anche io, magari ci si vede lì. Ci si può iscrivere fino al 15 febbraio, a questo link.

È tutto, per parlarci, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, scrivete a lettori@editorialedomani.it. 

A presto, buon sabato!

Ferdinando Cotugno

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